#4 – SUSURRĀTIO di Paola Giunta e Eugenio Mandolillo

Ottimi Padri, alla mia relazione sui manoscritti di Messer Leonardo da Vinci conservati da Sua grazia Tommaso Howard Conte di Arundel sono dolente di dover aggiungere la presente nota riguardante un testo di sovrana importanza e gravità celato nella rilegatura, un testo le cui mani stesse si rifiutano di trascrivere ma che, in nome dell’obbedienza che Vi devo, riporterò fedelmente, parola per parola. Possa Iddio per tramite Vostro perdonarmi per le parole cui ho prestato occhio e delle quali dovrò fare testimonianza.

***

Non importa il mio nome, chi io sia stata, è bene che sia di vostra conoscenza chi io divenni.
Nacqui sotto un nome che dovetti rinnegare per sfuggire ad una vita buia, mi credettero fuori di senno, e fecero scempio della mia ragione. La mia colpa fu quella di essere nata donna ma vergogna ancor più grave è che volli dissetare la mia sete di conoscenza, mi costò caro l’ardire tanto, ma non potei fare altro, e per aver salva la vita il mio nome feci giacere sul freddo marmo di un campo santo. La morte mi donò la vita e non rivelai mai ciò se non al mio Maestro. Lui, un uomo di grande intelletto istruì me, sua umile e devota serva. Rammento con chiarezza quel giorno nella primavera 1487, quando il Maestro mi chiamò a sé e mi chiese quale fosse la mia più grande aspirazione, risposi senza esitare che ardevo dalla voglia di sapere l’essenza materiale dell’uomo, confessai che bramavo la conoscenza di ciò eravamo, uomini e donne, umane genti simili seppur diversi. Una notte, mi portò con sé, in un angusto laboratorio, alla flebile luce di una candela vidi il suo sguardo brillare, conoscevo bene quegli occhi, passavo intere notti a ricordare le mille e più sfumature che avevano, eppure quel modo di guardare mi colpì. Tra le ombre scorsi i suoi movimenti, mi avvicinai e capii cosa si accingeva a fare; lo stupore lasciò immediatamente spazio alla voglia di sapere. La morte avrebbe rivelato a noi il segreto della vita, così senza alcun indugio né tentennamento scrissi senza sosta tutto quello che in quella notte avvenne: prese con molta attenzione un piccolo coltello la cui lama scintillò come se avesse luce propria, e senza esitazione con mano ferma e sicura affondò di poco sulla fronte di quel che era stato un tempo un giovane uomo, per un secondo mi chiesi chi fosse costui, quale fosse stata la sua colpa per giacere inerme su quel tavolo. Il mio pensiero tosto venne riportato alla realtà dal rumore secco come un ramo che si spezza, in un attimo, ci fu un brivido che percorse la mia schiena, eccolo! Il mio Maestro ebbe tra le mani ciò che era dentro la povera testa di quell’uomo. L’eccitazione fu fredda e calcolata, i suoi occhi tradirono ciò che provò, ed i miei furono lo specchio dei suoi. Iniziò a studiare quella massa e fece ciò che era inevitabile per lui, trasferire su carta ciò che vide e capì. E mentre, con la sua massima precisione riportò ogni dettaglio mi istruì sulle sue teorie e ipotesi, confidò a me la sua convinzione, e mi rivelò i suoi segreti studi, mi disse la sua grande idea su quella complicata rete che collegava ogni parte del corpo al sensus communis e quest’ultimo direttamente all’anima, come una catena infinita ed indissolubile. Studiai i suoi disegni per anni ed ogni notte in quel laboratorio nascosto, tutte le volte che quella lama piccola e sottile affondò nelle carni aprì il varco alla mia conoscenza, non provai più quel brivido, se non quando in una notte calda il mio Maestro guidò la mia mano lungo il ventre gonfio di una donna, quello squarcio rivelò ai nostri occhi il mistero più intricato, un bambino, la piccola creatura stava rannicchiata sospesa in quella cavità profonda, un tempo calda ed accogliente, chiesi al mio Maestro come fosse possibile che una vita potesse crescere dentro un’altra vita, un corpo dentro un altro corpo, come avrebbe potuto respirare in quel ventre rigonfio pieno di liquido viscido e cristallino. Mi guardò con i suoi occhi dalle mille sfumature e mi disse con la sua voce pacata “se alitasse, annegherebbe; e lo alitare non gli è necessario, perché lui è vivificato dalla vita e cibo della madre”. Ciò detto, mi affidò delle pergamene scritte in una lingua all’ora sconosciuta.
Io fui la sua umile allieva di anatomia, ebbi l’onore ed il privilegio della conoscenza all’ombra del suo immenso nome: Messer Leonardo di ser Piero da Vinci, il suo ricordo echeggerà nella storia.
2 maggio 1519

Nel concludere questa nota, Reverendissimi Padri, Vi informo che il testo qui riportato si trova adesso presso i nostri Uffici e che nessuno, neanche Sua grazia, è a conoscenza della sua esistenza, condizione questa che mi permette umilmente di suggerire, Ottimi Padri, la definitiva distruzione sia fisicamente sia dalla memoria di tale infame testo, acciocché non siano turbate le anime semplici tum etiam non si consegni ad eretici e stolti che sovvertono e dubitano delle Sacre Scritture, chi col suo ingegno ha mostrato la Divina perfezione del Creato riuscendo, grazie al sacro timore verso Dio, di non tracimare giammai in una delle troppe eresie fiorite in un tempo nefasto dove al culto dovuto unicamente a Dio Padre si sostituì il culto per la creatura.
Confidando nella Vostra sapienza e sul sostegno che mai vi mancherà ad opera dello Spirito Santo, Vi affido la decisione finale sulla sorte ultima di questo testo e dei suoi protagonisti.

A.D. 1630

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