#8 – La dama e l’ermellino di Valeriana Maspero

Cecilia Gallerani, quasi cinquantenne, era ancora molto bella. L’abito di raso carmosino si apriva come la corolla di un fiore su una scollatura tonda dove una catenina di oro sottile terminava con un pendente di perla nell’incavo tra i seni.
«Messer Bandello, venite a sedere vicino a me. Ho appena ricevuto una lettera dal nostro buon amico ser Leonardo. Mi scrive dalla terra di Loira, dove re Francesco lo tiene a consigliere e maestro d’arte e di pensiero. Parla del suo giardino, selvatico come piace a lui, dei suoi alberi da frutta, di fontane scolpite nella pietra e di cespugli con bacche color d’arancio che vengono dall’oriente. Sapete quanto lui ami i colori. Ma mi dice pure che non muove più bene il braccio sinistro e che lo stomaco lo fa soffrire».
«E si cura sempre con i decotti e le tisane che si prepara da solo per restare alla larga da dottori e cerusici?»
«Certo. Ma scrive che gli è ormai diventato difficile continuare a godere appieno della vita».
«Che tristezza, la vecchiaia. Pensare che i nostri destini si sono incrociati quando eravamo ragazzi nel fiore degli anni».
«E quell’incontro ha cambiato le nostre vite».
Cecilia sospirò. Pensava con nostalgia all’amico lontano.
«Ser Leonardo era un uomo bellissimo. I suoi capelli lunghi alle spalle, biondi e ondulati, i fondi occhi chiari…»
«… entravano fino in fondo all’anima, sì. Quando da novizio lo incontrai nel cenacolo di Santa Maria delle Grazie dove mio zio Vincenzo era priore e lavorava a un nuovo tipo di pittura che potesse durare nei secoli come l’affresco dei romani e avesse i pregi dell’olio dei fiamminghi,
mi aveva richiesto come modello per il san Giovanni. Allora avevo osato dirgli che anch’io volevo tramandare nei secoli la mia opera, ma lui aveva le figure, i colori, i pennelli, io no. E mi disse: Tu hai la penna e la pergamena: l’uomo di lettere viaggia sulle onde del tempo con la nave del calamaio, di cui la penna è l’albero maestro e le carte sono le vele… Poi mi chiese di narrargli una delle mie storie e io gli raccontai quella che preferivo, la struggente vicenda di due giovani amanti di Verona che a causa della guerra tra le loro famiglie e della sorte maligna finivano tragicamente in braccio alla morte. Lui mi disse che era bellissima e che avrebbe viaggiato a lungo nel tempo diventando immortale».
«Messer Da Vinci dava sempre insegnamenti e ispirazioni. Cambiava il destino delle persone. Anch’io, come voi, lo incontrai da bambina. Il maestro era da poco giunto alla corte del duca Moro, come ingegnere, dicevano, per sistemare le acque di Mediolano. Ma era scoppiata la peste e i duchi Sforza si erano rifugiati nel castello di Modoetia, portando al loro seguito l’ospite toscano. Anche la mia famiglia per fuggire il contagio si trasferì in quel borgo, dove avevamo il palazzo di campagna. Così il destino volle che ci si incontrasse. La sera, al banchetto nel castello, ser Leonardo rimase tutto il tempo con la mia famiglia, ricordando la bella terra di Toscana da cui noi si proveniva, e dopo l’ultima ciaccona mi aveva presentato al duca Ludovico».
«Ora capisco perché, quando eravate la regina del cuore del Moro e di Mediolano, egli volle che fosse proprio ser Leonardo a farvi il ritratto».
«Sì, e per me posare fu una grande emozione».
«Io non posso fare altrettanto, non sono così grande. Ma posso dedicarvi umilmente una delle mie novelle.»
Cecilia inclinò il capo di lato, sorridendo: «Voi mi fate grande grazia, che non merito.»
Matteo trasse dalla sacca un plico di fogli arrotolati e glieli porse.
«È una storia che mi sembra perfetta per voi. Parla di un ritratto e del destino.»
Il frate letterato cominciò a leggerla ad alta voce. Parlava di un cavaliere, alla corte del re d’Ungheria, che aveva una moglie bellissima ma era povero. Per rimpinguare le sue casse aveva offerto i suoi servizi al re, che lo destinò alla guerra contro i Turchi. Temendo che qualche cortigiano gli insidiasse in sua assenza la moglie, fece fare da un mago un ritratto fatato: quando fosse stata corteggiata da qualcuno il dipinto avrebbe lampeggiato e se avesse ceduto i colori sarebbero sbiaditi. E infatti mentre era via due cortigiani scommisero con il re tutti i loro averi sul fatto che avrebbero ottenuto le grazie della sua bella moglie. Ma lei non cedette loro, anzi rinchiuse i due baroni, uno dopo l’altro, nelle cantine della sua casa, minacciandoli di lasciarli senza cibo se non avessero rivelato il motivo del corteggiamento e testimoniato pubblicamente la sua innocenza. Nel frattempo suo marito, in Turchia, vide il ritratto lampeggiare due volte e poi tornare ai colori normali e si rassicurò. Lei inviò alla corte i servi dei due baroni a raccontare ciò che i rei confessi avevano tentato di perpetrare ai suoi danni. Il re decretò allora che avevano perso la scommessa, assegnò i loro feudi e i castelli al cavaliere marito della bella fedele e li condannò per avere attentato alla virtù di una nobildonna. Il fortunato cavaliere, tornato vittorioso dalla guerra, saputa tutta la vicenda e di molto arricchito, non mancò di ricompensare generosamente il mago pittore.
Cecilia applaudì a mani aperte la storia.
«La fedeltà è una grande dote» commentò.
«E voi ne avete in abbondanza: fedele prima al vostro duca Ludovico e poi al marchese Bergamini, che il Moro volle darvi come marito».
«Sì. Così lui volle».
Il Bandello si guardò intorno, incuriosito: «Ma dite, madonna, che sorte ha avuto il ritratto che ser Leonardo vi fece per il duca?»
«Lo conservo in una stanza segreta, della quale io sola ho le chiavi. Riderete di me, ma ho timore ad andarlo a vedere. E ci vado solo di notte, quando si può guardarlo alla luce della luna. Oppure quando qualche ospite illustre, a cui non posso rifiutarlo, mi chiede di vederlo.»
«Ebbene, io ve lo domando».
«Dopo il dono che mi avete fatto, come potrei rifiutarmi?»
E mentre Cecilia conduceva l’amico frate attraverso corridoi poco frequentati del castello – camminamenti sopra i cortili e passaggi segreti tra le ali e le torri – gli raccontò la storia del ritratto.
«Il Moro lo vendette al re d’Ungheria quando costui voleva che io sposassi un nobile della sua terra. Proprio come nella vostra novella. Ma io rifiutai di lasciare la patria e allora quel re me lo ha lasciato tenere finché vivo».
Cecilia si abbassò ad aprire un porticina ferrata nella torre laterale: sulla parete tappezzata in seta chiara, di fronte alla monofora da cui entrava la luce della luna, era appeso il quadro.
Il Bandello si avvicinò ammirato: «È splendido!»
«Sì, è ancora come fosse stato dipinto ieri».
La fanciulla del ritratto, vestita in velluto morello, era ripresa di tre quarti, come se si stesse voltando; aveva lo sguardo rivolto a destra, come verso qualcuno che fosse entrato nella stanza in quel momento e dal quale proveniva tutta quella luce che inondava la sua figura; portava una collana di gemme nere e teneva tra le braccia un piccolo ermellino dalla pelliccia ancora estiva, che guardava nella stessa direzione.
«Perché ser Leonardo vi dipinse con in braccio un ermellino?»
«Il mio nome, Gallerana, in greco significa gatto selvatico e lui mi disse che l’ermellino, la cui pelliccia si usa per le cappe dei re, appartiene a quella famiglia di felini. Proprio in quei giorni, il duca Ludovico aveva ricevuto l’ordine dell’ermellino e l’imperatore Massimiliano gli offriva il titolo di re per ottantamila ducati. Leonardo allora mi aveva detto: voi tenete in braccio il sogno del Moro, quello di diventare re. E mi dipinse con l’ermellino in grembo».
«Sì, è un po’ mago. Lui ha sempre amato questi giochi di pensiero. Ma perché allora non lo dipinse con la bianca divisa maculata invernale?»
«Perché il titolo reale in verità non era ancora nelle mani del Moro».
Gli occhi del Bandello passavano dal dipinto a lei e da lei al dipinto. Il ritratto era bellissimo, ma sembrava quello di un’altra donna. Lui lo confrontava con la signora che aveva davanti, sbocciata dall’acerba fanciulla di allora. La forma del viso si era allargata come una rosa quando nel pieno della fioritura non assomiglia più al bocciolo; gli occhi sembravano più piccoli, più tondi e cigliati, e la bocca più rossa e carnosa. La pelle era cambiata di colore e consistenza come dal fiore al frutto del pesco. La Bergamina indovinava quei pensieri dal suo sguardo ondeggiante.
«Il ritratto non è cambiato da allora, io invece lo sono molto, lo so. Ed è successo in pochi mesi, quando da fanciulla divenni donna».
«Spesso succede alle donne. Ma siete ugualmente bella».
«Io ho pensato spesso a questo cambiamento, che non mi sembra così naturale. E sapete che cosa mi è venuto in mente proprio ora?»
«Che cosa?»
«Che la mia storia con Ludovico il Moro ha somiglianza con la novella che mi avete dedicato. Anche in essa c’è il ritratto di una donna. E una magia di cambiamento. Forse il Moro interrogò il mago Leonardo per sapere se doveva comperare il titolo di re e lui gli disse: Guarda il ritratto con l’ermellino reale. Se il viso della tua amata che lo tiene in grembo resterà sempre uguale, avrai il regno; ma se il suo viso cambierà, allora sarà segno che lei e la corona non sono destinate a te.
E per questo io credo che quando cambiai, e il mio viso non fu più quello del ritratto, il Moro decise. Non comperò il regno. E mi diede l’addio».

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