#9 – GENIO INCOMPRESO di Debora Serrentino

«È la volta che lo caccio!», si sentì tuonare per tutta la Taverna delle tre lumache.
Mastro Gastoldi era un uomo robusto e dall’aria rubiconda con il grembiule bianco perennemente allacciato in vita e solitamente accoglieva gli avventori con un ampio sorriso un boccale di vino buono.
Solitamente, perché da quando aveva preso a servizio quel giovane dinoccolato, il suo carattere gioviale si stava guastando.
«Per l’ennesima volta, questa è una taverna semplice, per persone semplici, le tue stramberie mi fanno scappare i clienti!».
Il ragazzo chinò il capo, più per rispetto che per effettiva contrizione, ma immediatamente si ritrovò a ribattere: «Ma Mastro Gastoldi, guardi lo sporco, buttano roba ovunque, non sta bene…».
«E per l’ennesima volta, tu lasciali fare! Quel cencio che stai cercando di rifilargli, non lo vogliono, non sanno che farsene!».
Leonardo non se ne faceva una ragione, per lui era così semplice, invece di pulirsi nella camicia, che poi restava sporca e brutta da vedere, riteneva più adatto usare un pezzo di stoffa per pulirsi la bocca e le mani, non era così difficile.
La giornata era terminata e Leonardo, di malumore, se ne andò verso casa. Le sue giornate non erano interessanti e avventurose come aveva immaginato. Quando era partito da Vinci per raggiungere Firenze immaginava un’altra vita.
Il lavoro in bottega, al fianco di un maestro come Verrocchio gli era sembrato un sogno, la realizzazione di tutti i suoi desideri, e la paga, che a un ragazzo di paese sembrava un piccolo tesoro, nella realtà di una grande città erano proprio due spicci.
Aveva scelto di andare a vivere da solo, voleva essere indipendente, così si era trovato quel lavoro che gli era sembrato davvero interessante. Era appassionato di cucina, quando abitava a Vinci lavorava sempre nella pasticceria del patrigno, dove amava creare figurine di zucchero e di biscotto. Nella taverna di Mastro Gastoldi sperimentava pietanze nuove, nuovi piatti, cercava accostamenti insoliti o provava a migliorare il sapore delle solite pietanze che consumavano i clienti, ma quei rozzi barbari non apprezzavano.
Aveva anche provato a migliorare il lavoro dei cuochi e dei cucinieri costruendo macchine con leve e pulegge che spostavano i carichi più pesanti, che non obbligavano più i lavoranti a stare davanti ai fuochi, rischiando di bruciarsi. Ma nulla, i suoi tentativi non erano piaciuti a nessuno. Quei rozzi e ignoranti dei cucinieri non apprezzavano le sue macchine, gli mettevano soggezione, dicevano che li impacciavano nel lavoro. Barbari e ancora barbari!
Percorreva il Ponte Vecchio sbuffando e scalciando ciottoli, quando sentì gridare: «Al fuoco!, Al fuoco!».
Si voltò verso le grida e vide le fiamme che uscivano dalla Taverna delle tre lumache.
Non poteva essere! Mastro Gastoldo era sicuramente dentro, si fermava sempre dopo la chiusura a sistemare e a controllare che tutto fosse in ordine per il giorno dopo. Doveva fare qualcosa, doveva aiutare.
Corse verso la Taverna, in uno dei magazzini lì accanto c’era la sua macchina a carrucole e pulegge che aveva cercato di installare nella cucina di Mastro Gastoldi per sollevare i pentoloni di acqua bollente. Pensava di poterla usare per trasportare più secchi sul luogo dell’incendio.
Davanti alla taverna c’era un via vai di uomini che cercavano di trasportare acqua con ogni secchio, pentola e recipiente possibile. Leonardo si guardò in giro alla ricerca di Mastro Gastoldi, fortunatamente lo vide in mezzo agli uomini che cercavano di spegnere l’incendio. Era salvo. In fondo Leonardo era affezionato a quell’uomo, che pur brontolando sempre, gli lasciava sperimentare le sue idee e cercava di insegnargli il mestiere. L’avrebbe ascoltato, ne era certo.
Leonardo si fece strada fino a Mastro Gastoldi e richiamò la sua attenzione.
«Maestro, ho un’idea, usiamo una delle mie macchine per spegnere l’incendio!»
«Leonardo, figliolo, non è il momento per le tue stramberie, dobbiamo spegnere il fuoco, è la mia taverna, è tutta la mia vita!». Mastro Gastoldi tornò ai secchi.
Leonardo era furibondo, nessuno sembrava disposto ad ascoltarlo, lo scansavano, gli davano ordini, ma nessuno gli dava retta.
Leonardo corse al magazzino vicino alla taverna. Iniziò a tirare fuori i pezzi della sua macchina. Aveva bisogno d’aiuto, quindi fermò un paio di ragazzini che ciondolavano lì intorno nel tentativo di vedere l’incendio. «Aiutatemi! Dobbiamo portare questa roba vicino alla taverna!». I ragazzini non sembravano per nulla convinti, volevano vedere lo spettacolo e corsero via.
Leonardo era disperato, non sapeva cosa fare. Alla fine decise di dare almeno una mano con i secchi.
Raggiunse di nuovo gli uomini davanti alla taverna, ma si accorse che era troppo tardi, il fuoco ormai aveva distrutto quasi tutto. Mastro Gastoldi era affranto, seduto a terra con la testa tra le mani. Piangeva. Leonardo si rese conto che l’aveva visto sempre solo sorridere, anche quando sbraitava per le sue stramberie, come le chiamava lui, alla fine tornava sempre al sorriso.
Non sapeva cosa fare, lui era un pittore, uno studioso, non se la cavava molto bene con le persone, non le capiva. Si avvicinò a Gastoldi, si sedette vicino a lui, in silenzio.

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2 Risposte a “#9 – GENIO INCOMPRESO di Debora Serrentino”

  1. Un bel lavoro. Mi è dispiaciuto che Leoanrdo non abbia potuto spegnre il fuoco con la sua macchina. effettivamente ne aveva costruita una. Brava.

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