Come foglie al vento – Riccardo Calimani

Trama. Lo struggente racconto di un nonno ai nipotini è l’occasione per ripercorrere i giorni drammatici delle persecuzioni contro gli ebrei veneziani, in una testimonianza in cui il ricordo personale si alterna ai documenti e agli avvenimenti pubblici dell’epoca, e che restituisce non solo la storia di quegli anni, ma anche il senso di straniamento e incredulità delle vittime della Shoah. Proprio come le foglie al vento, anche le donne e gli uomini evocati nel racconto sono travolti da una forza superiore, violenta, incomprensibile, e da un orrore inimmaginabile. Molte cose, infatti, fino alla fine della Seconda guerra mondiale, non si sono sapute, e anche quello che si sapeva era troppo terribile per essere creduto, e chi ha vissuto in quegli anni ha preso coscienza di quella tragica realtà a poco a poco, tra incertezze e contraddizioni. Riccardo Calimani, uno dei massimi studiosi ed esperti di Venezia e della storia degli ebrei italiani, fonde in questo libro la dimensione privata con quella storica, e dà vita così a una memoria famigliare e nello stesso tempo a una ricostruzione rigorosa e densa degli anni più terribili del Ventesimo secolo.

  • Editore ‏ : ‎ Mondadori (11 gennaio 2022)
  • Lingua ‏ : ‎ Italiano
  • Copertina rigida ‏ : ‎ 324 pagine

Recensione a cura di Claudia Pellegrini

“Cari Caterina e Alessandro, ho scritto questo libro pensando a voi, con la speranza che, pur conoscendo le traversie del passato, possiate essere felici, ma anche ben coscienti che nel mondo accadono avvenimenti impensabili e che contro l’odio bisogna sempre combattere con dignità e lungimiranza. È un compito gravoso, ma lottare contro qualsiasi tipo di idolatria e autoritarismo è un dovere. 

Riccardo, vostro nonno”.

Questo libro inizia come una favola, con un nonno che racconta una storia ai nipoti che, curiosi come tutti i bambini, vogliono sapere cosa rappresenta una piccola placca che sembra d’oro, con un nome e delle date incise, che vedono tutti i giorni entrando e uscendo di casa. Da bravo nonno Riccardo Calimani spiegherà loro l’origine di quella pietra di “inciampo”, un segno comune a molte città italiane e che serve a 

“far inciampare i nostri pensieri, ad attirare la nostra attenzione, a costringerci a ricordare”.

Ma questa non è una favola. É la testimonianza che l’autore vuole lasciare ai nipoti e al resto del mondo di quello che accadde non solo nella sua città, Venezia, ma in tutta Italia alle comunità ebraiche dal 1938 al 1945, il racconto dettagliato di quegli otto anni che segnarono la vita di milioni di ebrei vittime delle persecuzioni nazifasciste.

La famiglia Calimani era stata una delle prima a varcare la soglia del ghetto di Venezia al momento della sua creazione nel 1516, e da quel momento in poi aveva fatto parte della città lagunare. I genitori dell’autore, Angelo e Fausta, avevano vissuto vite comuni a tanti altri fino al 1937, quando iniziarono a farsi sentire i primi timidi accenni di propaganda contro gli ebrei, che in un primo momento vennero presi quasi sottogamba, ma poi esplosero prorompenti l’anno successivo, nel 1938, all’alba della pubblicazione del Manifesto della Razza.

“Razza è un termine privo di qualsivoglia fondamento scientifico e anche di qualunque attendibilità meramente descrittiva”.

In un primo momento le persecuzioni furono parziali, bastava pagare o avere agganci al partito fascista per non essere esclusi da qualsivoglia attività. Ma ben presto coloro che in un modo o nell’altro erano riusciti a restare a galla affondarono insieme agli altri, poiché le persecuzioni divennero indistinte. Esclusione dall’insegnamento, esclusione di iscrizione alle scuole, niente diritti politici, limitati, anzi limitatissimi, diritti civili, limiti di proprietà immobiliare, di proprietà industriale e commerciale, e via dicendo. Persino il papa Pio XI dichiarò

“Ma io mi vergogno; mi vergogno di essere italiano”.

E se qualcuno aveva sperato che il successivo pontefice eletto nel 1938, Pio XII, al secolo Eugenio Pacelli, potesse fare qualcosa per carità cristiana, ne rimase molto deluso poiché, al di là del definitivo deterioramento dei rapporti tra Stato e Chiesa, nulla cambiò, anzi, quello fu proprio l’anno in cui la situazione degenerò ulteriormente, l’anno del Patto d’Acciaio:

“Gli ebrei italiani, che fino a quel momento avevano sperato che le leggi razziali fossero applicate con poco rigore, persero ogni illusione in merito”.

Ormai non bastava più neanche convertirsi, era iniziata una vera e propria caccia all’ebreo, fomentata peraltro da tutti i mezzi di comunicazione in funzione all’epoca, giornali, programmi radiofonici, manifesti con caricature e vignette, nonché manifestazioni di violenza gratuita a carico delle case degli ebrei e delle poche botteghe rimaste aperte. 

Con lo scoppio della guerra poi la situazione precipitò ulteriormente. A seguito della campagna fallimentare in Grecia, e quella ancor più miserevole in Russia, nonché alla caduta della Libia, nel 1943 cedette anche il fascismo, e nella penisola scoppiò il caos, soprattutto a seguito dell’Armistizio dell’8 settembre. Da questa data alla fine della guerra passeranno 20 lunghi mesi, 600 giorni di persecuzione e angoscia per la popolazione ebrea italiana che, proprio come Angelo e Fausta, si ritroverà

“Perennemente in fuga. Come foglie al vento”.

Iniziano i primi rastrellamenti, prima quello nel ghetto di Roma il 16 ottobre del 1943, e a seguire quello a Venezia nella notte tra il 5 e il 6 dicembre. Molti di loro saranno condotti in Germania direttamente, altri sosteranno per qualche tempo in alcuni campi italiani, come quello di Fossoli, dal quale peraltro un parente dell’autore riuscirà fortunatamente a scappare. Ma non sarà così per molti. Inoltre, riguardo ai campi di sterminio, nelle comunità ebraiche da tempo ormai circolavano voci fantasiose su questi posti, tutti siti all’estero, che però nessuno aveva mai preso per vere. E in effetti era impossibile immaginare fin dove poteva spingersi l’odio degli esseri umani. Il corrispondente del Times al seguito degli inglesi che furono i primi ad entrare a Bergen Belsen, e dunque a vedere cosa accadeva realmente in quei luoghi, scrisse:

“È mio dovere descrivere qualcosa che va oltre l’immaginazione umana”.

L’autore ci fa un excursus chiaro, dettagliato e particolareggiato di quegli otto anni dal punto di vista storico, politico e sociale, ma ci narra anche le vicissitudini di Angelo e Fausta, sbalzati da un posto all’altro come foglie al vento nella speranza di poter vedere l’alba di un nuovo giorno che avrebbe loro restituito quella libertà che avevano sempre posseduto. L’ultima parte del libro è dedicata alle testimonianze reali di familiari e conoscenti che hanno vissuto quegli anni, storie simili tra loro, tutte con un comune denominatore ovvero l’incredulità per ciò che stava accadendo, un’incredulità che ancora oggi accompagna certe storie che sembrano favole per spaventare i bambini, ma che invece, purtroppo, appartengono alla triste realtà del nostro passato, un passato neanche troppo lontano nel tempo.

 L’AFFARE DE LA RAZZA

Ciavevo un gatto e lo chiamavo Ajò;

ma, dato ch’era un nome un po’ giudio,

agnedi da un prefetto amico mio

po’ domannaje se potevo o no:

volevo sta’ tranquillo, tantoppiù

ch’ero disposto de chiamallo Ajù.

— Bisognerà studià — disse er prefetto —

la vera provenienza de la madre… —

Dico: — La madre è un’àngora, ma er padre

era siamese e bazzicava er Ghetto;

er gatto mio, però, sarebbe nato

tre mesi doppo a casa der Curato.

— Se veramente ciai ‘ste prove in mano,

— me rispose l’amico — se fa presto.

La posizzione è chiara.:— E detto questo

firmò una carta e me lo fece ariano.

— Però — me disse — pe’ tranquillità,

è forse mejo che lo chiami Ajà.

Trilussa (Carlo Alberto Salustri) 1940

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