DANTE, UN CINQUECENTO DIECE E CINQUE

a cura di Claudia Renzi

Uno dei misteri della Divina Commedia è quello riguardante il famoso “Messo di Dio”. Nel XXXIII canto del Purgatorio (vv. 40-44) Dante, per bocca di Beatrice, fa una delle sue profezie:

“Ch’io veggo certamente, e però il narro
a darne tempo già stelle propinque
secure d’ogne intoppo e d’onge sbarro
nel quale un cinquecento diece e cinque
Messo di Dio, anciderà la fuja
con quel gigante che con lei delinque.”

Dove sappiamo la fuja – ladra – essere per il poeta il papato, e il gigante il regno di Francia. La prima ipotesi è che Dante, amando tanto Virgilio, abbia voluto emulare in qualche modo la profezia della IV Egolga (citata da Dante stesso in Purgatorio XXII, vv. 70-72)
Altra ipotesi è che il Messo sia il Veltro, nominato nel I canto dell’Inferno anche se è presumibile che, se Dante avesse voluto intendere la stessa persona, l’avrebbe evocata di nuovo col primo appellativo, “veltro” appunto.
Notando che il numero 515 si trascrive in lettere latine con DXV, molti hanno interpretato tale sigla come un acronimo per Dante Veltro di Cristo (la X, corrispondente alla lettera chi greca è un monogramma di Cristo), ma al altri l’interpretazione è parsa troppo forzata e si è cambiato l’ordine delle lettere ottenendo il più comprensibile (si fa per dire) DVX. Ma chi poteva essere questo Dux?
Da scartare l’ipotesi di lettura DVX = Domini Xristi Vicarius, vista l’opinione di Dante su molti papi, e anche Dante Xristi Vergatus, troppo autocelebrativa.
Un’ipotesi ardita è quella del Dante Templare di Robert L. John, il quale si domanda chi fosse appunto “Questo Messo di Dio che i critici hanno frettolosamente trasfromato da DXV a DVX con uno scambio di lettere. Beatrice stessa ammette che il suo discorso è oscuro e rappresenta un grande enigma che però poi verrà sciolto (vv. 46-50). Poiché” prosegue “Gli eventi attesi non si sono verificati, l’oscurità dell’enigma sussiste ancora oggi. Che cosa beatrice, Gnosi templare (in quanto profetessa) e Dante, adepto templare, intendevano per il vendicatore della fuja e del suo gigante se non la riedificazione del Tempio che Filippo il Bello, re di Francia e quindi il “gigante” e Clemente V, il papato-fuja avevano distrutto?” In quest’ottica fuja calza bene per ladra, poiché è noto che i Templari furono soppressi per la vertiginosa ricchezza raggiunta. Dunque secondo John il ricostruttore del Tempio sarebbe dovuto essere proprio il misterioso “515”.
Egli identifica il numero con una persona, secondo il modello del versetto 13,18 dell’Apocalisse, in cui il 666 indica un uomo. “Quindi a Dante interessa il numero 515 e non la parola dux. Esiste una relazione tra il numero 515 e la riedificazione del Tempio? Sì. L’antico Tempio di Salomone vene distrutto da Nabucodonosor nell’anno 588 a.c.. Verso il 515 il Tempio, sotto Zorobabele, era di nuvo in piedi. Beatrice profetizza non un dux, ma un nuovo Zorobabele, che riedificherà il Tempio di nuovo distrutto dalla fuja e dal gigante.” Tuttavia John non avanza nomi, poiché, sottolinea, la profezia di dante è volutamente fumosa.
Altre interpretazioni leggono la profezia come un’espressione generica della fede di Dante nella Provvidenza, che prima o poi avrebbe inviato un imperatore che avrebbe liberato la Chiesa dal giogo del Re di Francia, restituendola alla sua missione. Improbabile, secondo molti studiosi, che questo imperatore potesse essere Arrigo VII, morto troppo presto. Poco convincente il tentativo, pure proposto, di identificare il Messo con Cangrande della Scala.
Ed ecco che, ad un certo punto, per cercare di decifrare l’enigma, ci si è concentrati sui numeri. Molti fanno notare che spesso Dante regolò gli intervalli tra le profezie o altri passaggi salienti della Commedia con i numeri, appunto, in chiave simbolica.
Alcuni esempi: 666 versi separano la profezia di Ciacco (Inferno V, vv.63-66) fa quella di Virgilio (Inferno I, vv. 100-102); 515 versi la profezia di Farinata (Inferno X, vv. 79-81) da quella di Ciacco; 666 versi la profezia di Brunetto Latini (Inferno XV, vv. 70-72) da quella di Farinata; 515 versi la profezia di Nicola III (Inferno XIX, vv. 52-87) da quella di Brunetto…
Gabriel Rossetti (padre di Dante Gabriel pittore) fu il primo a far notare, nel suo Il mistero dell’amor platonico del Medioevo, che tutti avevano immaginato quel un cinquecento diece e cinque come un articolo, e non come numero. Il Messo di Dio, allora, non sarebbe più “515”, ma potrebbe essere “1515”! Rossetti sostiene che Dante alludesse ad un IVDEX e intendesse quindi un giudice supremo che avrebbe punito le colpe del potere temporale e spirituale dell’epoca. Un articolo letto qualche anno fa sulla non più reperibile rivista Graal, azzardava, è il caso di dirlo, un’ulteriore ipotesi, contando 1515 versi a partire da quello in esame. Quello che si trova è questo:

“Questi onde a me ritorna il tuo riguardo
e ‘l lume d’uno spirto che ‘n pensieri
gravi a morir li parve tardo:
essa è la luce etterna di Sigieri
che, leggendo nel Vico de li Strami
sillogizzò invidiosi versi.”
(Paradiso X, vv. 133-138)

Forse, cioè, Dante con la sigla 1515 intendeva Sigieri di Brabante o il suo pensiero filosofico? Qualche terzina sopra, Dante è sibillino:

“Messo t’ho dinnanzi; ormai per te si ciba
che a sé torce tutta la mia cura
quella che materia ond’io son fatto scriba.”

che vuol dire: “Lettore, ti ho messo davanti le mie riflessioni, valutale.”, ma potrebbe anche voler dire: “Messo [di Dio] ti ho davanti [a me].” = Sigieri, Messo, ti ho davanti a me. Chi era Sigieri per Dante che, nonostante la scomunica, lo colloca in Paradiso? Ho confrontato diversi commenti a questo passo (una decina) e nessuno traduce messo come sostantivo.
Il mistero resta!

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Una risposta a “DANTE, UN CINQUECENTO DIECE E CINQUE”

  1. “un cinquecento diece e cinque”
    Non va dimenticato il
    Ma si tratta di un copia e incolla tratto dal sito Matmedia.it [https://www.matmedia.it/__trashed-2/] mi si consenta. Tuttavia facendovi seguito mi domando chi potrebbe avere tanta sapienza, e non la ragione umana, di venire a capo a questo fraseggio criptico per seguire Dante nel suddetto gioco di aritmomanzia. Era proprio necessario ricorrervi per indicare un certo personaggio storico nel quale egli intravede la statura del DUX? Se a questo mirava? Che senso ha? O forse, era preso da un ragionare che si addice ad una sapienza suprema, la giusta per valicare il Purgatorio, l’unica per governare, degna del paradiso.
    Sinite parvulos venire ad me («lasciate che i fanciulli vengano a me»). Fu la frase rivolta da Gesù ai suoi discepoli (Marco 10, 14), quando essi cercavano di respingere coloro che gli presentavano i bambini perché li toccasse, e che continua con l’affermazione che soltanto chi è puro e innocente come un fanciullo entrerà nel regno dei cieli (talium enim est regnum Dei. Amen dico vobis: Quisque non receperit regnum Dei velut parvulus, non intrabit in illud).
    Dunque nel Paradiso visto da Dante Alighieri.
    E allora non resta che il poeta matematico e insieme bambino e non altri, quasi come un certo gioco che tanto piace ad essi.
    Ed ecco che si fa strada la loro interpretazione attraverso un semplice gioco matematico crittografico, dei suddetti versi in questione, coinvolti nei tre numeri «cinquecento diece e cinque», per intravederli nella serie di numeri dei versi di tutta la Divina Commedia.
    Di qui è facile giungere ai tre versi:
    – «Mira colui con quella spada in mano» che è il 500° verso;
    – «che sovra li altri com’aquila vola» che è il 510° verso, cioè 500 + 10;
    – «de l’onor di Cicilia e d’Aragona» che è il 5105° verso, cioè 510 e 5 (il precedente più 5)
    Allora non sarà con le armi di eventuali re della terra designati dai tanti esegeti della Commedia dantesca a impersonare «il messo di dio» che lo castigherà, ma qualcuno con la dialettica dei “numeri”.
    Se questo è il messaggio “veltrico” che Dante ha voluto, veramente, rilasciare cripticamente ai posteri, certo, resta ancora velato. Tuttavia, considerando l’amore speciale che il poeta ha voluto infondere nella sua Divina Commedia, ho pensato che «il messo di Dio», intravisibile nel messaggio adombrato «d’Argo» (Par. XXXIII, 36), non abbia una comune «spada in mano», così come è stata sempre intesa quale strumento di morte. Può essere invece una prodigiosa “leva” come quella della ragione, per esempio, giacché si vuole un Dante squisitamente «geometra». Il passo è breve per individuare chi la brandeggia, uno di statura ciclopica, proprio in stretta relazione alla parola «Cicilia», riconosciuta come Sicilia: è il siracusano Archimede famoso per il suo motto:
    «Vectis mihi et ego commovebo mundi!» (Dammi una leva e ti solleverò il mondo!)
    In questa chiave, risulta chiara l’allusione alla «mente» (Par. XXXIII, 139), la cui “leva” argomentata, la ragione, è disponibile a tutti gli uomini senza distinzioni, “in chi più, in altri meno”. È naturale e sacrosanto, allora, lo scopo dell’uomo nell‘accingersi a concepire «l’onor di Cicilia» in modo da predisporre questa “casa” perché vi possa entrare la giusta «Regina» che è:
    «La gloria di colui che tutto move/per l’universo penetra, e risplende/in una parte più o meno altrove» (Par. I, 1-3)
    Ricordiamoci che si sta ragionando sul tema del genere d’uomo nuovo che soggiornerà in una terra nuova che, Giovanni addita nella sua Apocalisse nella Gerusalemme celeste.
    Gaetano Barbella

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