Ebbe nome Lionardo. Il genio nato a Vinci di Elisabeta Gavrilina

Recensione a cura di Pina Cantarella

Il 24 agosto del 1456 un uragano investì le colline del Montalbano. Gli abitanti del borgo di Vinci si chiusero nelle loro case in attesa che la furia si quietasse. Era nato lì quel bambino vispo, molto vispo, che non dimenticò mai quell’uragano, aveva poco più di quattro anni.
Lionardo sarebbe rimasto per sempre affascinato dalla forza dei quattro elementi: acqua, aria, terra e fuoco, che quel giorno vide scontrarsi con furia folle e selvaggia; per tutta la vita si ingegnò per riuscire a domarli. E per tutta la vita avrebbe disegnato i vortici, quasi ne fosse ossessionato.
Si chiamava Lionardo e faceva disperare i nonni. Nulla sfuggiva alla sua attenzione. Il borgo non aveva segreti per lui, né le stradine, né i boschi, né i ruscelli, era curioso, tutto era fonte di conoscenza. Ma da chi era nato quel birbante dai capelli d’oro e con gli occhi verdi che sognava di andare a vivere a Firenze con il suo babbo e per questo le bambine lo chiamavano Fiore?
Lui si risentiva, gli pareva un nome da femmina. “Sono un lione e mi chiamo Lionardo”.
In fondo essere chiamato Fiore non gli dispiaceva, era come se lo considerassero già fiorentino. E non trovava nulla di male nelle femmine, lui il lillo ce l’aveva e lo sapevano, l’avevano visto quando si mettevano a pisciare tutti in fila. Se si batteva, era per un puntiglio d’onore.
I nonni, monna Lucia e ser Antonio, avevano mandato il figlio Piero a Firenze per studiare e magari diventare notaio. Il borgo non aveva niente da offrire a questo figliolo tanto intelligente. Stava a pensione da un amico del padre, Vanni di Niccolò di ser Vanni, che aveva una casa in via Ghibellina. Vanni era vecchio, ma con la faccia bonaria. Aveva sposato monna Agnola dei Bandini Baroncelli, parenti dei potentissimi Pazzi e da questa unione non erano nati figli. Lo accolsero di buon grado, la pensione era ben pagata. Piero si rivelò subito ragazzino brillante negli studi e tollerante verso quei compagni che lo chiamavano ‘il villico’. Crebbe in quella casa fra pasti misurati e chiacchiere del Vanni che piangeva sempre miseria ricordando i tempi in cui i fiorini avevano ben altro valore. La sua rovina fu l’istituzione del catasto a Firenze(a.1427) e tutto il giorno si scervellava su cosa fare per non disperdere in tasse il suo patrimonio.
«Bei tempi erano… poi hanno inventato il catasto. Ormai non si guadagna più niente. Troppe tasse. Ho chiuso la società, non fo più nulla», e per il resto della serata Vanni si lamentava di essere perseguitato dal fisco. «Se va avanti così finirò sul lastrico».
Piero non si commuoveva, più Vanni si lamentava e più si convinceva che il vecchio nascondesse enormi ricchezze. Conseguito il titolo di notaio, ser Piero, faticò non poco per farsi conoscere. Il suo sogno era di indossare le ‘vesti di giureconsulto dei Medici (ormai poco gli importava delle loro facce legnose e le ganasce da popolani: il potere li rendeva attraenti) o, meglio ancora, dei Pazzi, discendenti di una nobile stirpe, alteri e belli. Oppure dei Tornabuoni, Pitti, Neroni, Acciaioli, per Piero non faceva differenza con chi di loro cominciare l’ascesa.
Firenze, con le sue bellezze e l’opulenza sbandierata da quelli che contavano, aveva tante attrattive. Ma il suo cuore era a Vinci, stregato dal corpo burroso di Caterina, figlia illegittima di una Ridolfi e di uno Strozzi. Gli affari, però, si concludevano a Firenze. Non fu difficile per Piero decidere dove vivere.
Vanni promise la ritornata di casa, il diritto di abitare in via Ghibellina, se avesse sposato Albiera, la sua figlioccia, figlia di Giovanni Amadori. Accettò, la scelta giusta per il suo futuro e per accontentare la sua famiglia. Non sapeva ancora che Caterina aspettava un figlio e che sarebbe diventato padre. La popolana, delusa e addolorata per l’abbandono dell’amato, era disposta a crescerlo da sola. Non erano dello stesso parere le monne di Vinci con a capo la madre di Piero, non era dignitoso avere un figlio senza un marito. La fecero sposare con un muratore, innamorato segretamente di Caterina. Le monne rimediarono un corredino e l’aiutarono a partorire.
La contrattazione prevedeva inoltre che, dopo un anno di allattamento, il bambino avrebbe goduto ancora della protezione dei veri nonni, ma a casa dei nonni. Lo strazio di Caterina fu immenso. Lo vedeva crescere da lontano, suo figlio fioriva come un giglio, ma non insieme ai figli che sfornava di continuo. Lionardo, lo aveva chiamato così perché era il giorno di S. Leonardo quando si era mosso la prima volta nella sua pancia, chiamava ‘mammina’ la moglie del padre, bella e delicata (non riusciva a portare a termine una gravidanza) e per nome la sua vera madre. Cosa avrebbe fatto da grande? Si chiedeva Caterina. Lionardo era diverso dagli altri figli, il suo istinto la portava a sognare per quel birbante i mestieri più nobili, anche se popolana era nata e popolana era rimasta. Lionardo, dal canto suo, ci teneva a dimostrare al padre che tutto ciò che lo circondava era fonte di scoperta e di studio.
«Zio, come si fa a diventare un inventore?» «Non ne ho idea. Ora che ci penso, Brunelleschi aveva cominciato come orafo. Prima però era andato da un maestro d’abaco. Aveva studiato il trivio e il quadrivio, le discipline che distinguono uno colto da un ciuco. Io sono rimasto ignorante, ma tu un’istruzione la devi avere.»
Il nonno gli leggeva la Commedia, e lui la raccontava ai suoi compagni di bravate acquisendo prestigio e ammirazione. Il padre e il nonno, lo portavano spesso con loro per affari e lo iniziarono alle visite di castelli e di chiese. E lui s’incantava davanti alle pale d’altare e chiedeva il nome di chi aveva ritratto vergini e martiri o chi aveva dipinto tal Madonna o perché San Girolamo era accigliato. Aveva un’insaziabile sete di sapere e quel sapere generava meraviglia e fremito nelle sue mani.
Bravo, questo Masaccio, il più bravo di tutti. Speciale…. Voglio dipingere così, voglio che sia lui il mio maestro.
Scappò da casa per un giorno intero, ‘Tanto, il babbo non mi vuole.’ Firenze non era poi tanto lontana, l’avrebbe raggiunta a piedi, un giorno di viaggio soltanto. Infreddolito e affamato, tornò a casa. Il nonno, proprio quel giorno, era riuscito a convincere Piero a portare il figlio con sé a Firenze. Lo avrebbe ospitato, in attesa di entrare in possesso della casa di via Ghibellina.
Lionardo immaginava che il padre avesse una casa grande, invece lo accolse un umido pagliericcio da condividere con lo zio Francesco, Lionardo aveva nove anni. Piero doveva curare i suoi affari, e una bocca in più da sfamare lo preoccupava. Era intelligente, lo riconosceva, ma non più di tanti altri ragazzini della sua età. Lionardo, non poteva fare il notaio, un illegittimo non era ammesso agli studi di quella branca, e poi il ragazzo non aveva ancora le idee chiare, a suo parere. Era portato per il disegno, lo mandò a lavorare nella bottega del Verrocchio, scultore, pittore e orafo, superando persino il maestro. Ma gli interessi del ragazzo erano molteplici. Il suo quadernetto di appunti di anno in anno si riempiva anche di numeri e di disegni di oggetti misteriosi.
Lorenzo il Magnifico sentì parlare di lui, ma non era particolarmente interessato a quel giovane. Di diversa opinione fu Ludovico il Moro, che lo accolse a Milano con tutti gli onori. ‘Lui era un inventore e il duca Lodovico lo teneva in grande conto’.
Un giorno, il figlio bastardo avrebbe stupito il padre e tutto il mondo.

Copertina flessibile: 334 pagine
Editore: Pontecorboli Editore (15 aprile 2018)
Collana: Pontecorboli Editore
Lingua: Italiano
ISBN-10: 8899695865
ISBN-13: 978-8899695866

Recensione e riflessioni.
L’avevo scritta e messa da parte. Non avevo centrato l’intento dell’Autrice. Ho riletto la prima pagina, quella con il titolo, e il prologo. L’Elisabeta Gavrilina che cercavo era lì, mi aveva indicato chi e cosa l’aveva mossa a riempire magistralmente le pagine che seguivano, ed io ero andata avanti immersa nella descrizione del borgo ‘da Vinci’, delle colline del Montalbano, delle affascinanti ciance delle comari e delle curiose tradizioni popolari.
Monna Lucia portava fuori il cofanetto del cucito con dentro rocchetti e matassine di filo colorato, forbici, cesoine e guancialino degli aghi, e si sedeva in compagnia delle comari: monna Cosa, monna Lisa e monna Pippa con la figliola Maria, una ricamatrice fina.
Trascinata dalla ricostruzione di una Firenze rinascimentale, dove illustri casate detenevano il potere politico e quello economico, dove arti e speculazioni convivevano per la ricchezza di pochi, avevo perso di vista ben altro. Non è cambiato molto, mi dicevo, nonostante siano passati tanti secoli. Avevo conosciuto il padre di Lionardo, Piero, che sgomitava per emergere in quella società trascurando il figlio illegittimo, e la madre, Caterina, sottomessa a chi nel borgo decideva il bello e il cattivo tempo. Il fascino delle pagine illustrate e delle citazioni a piè di pagina mi avevano coinvolto tanto da deviare la mia attenzione dal cuore della narrazione.
L’amore oscura l’intelletto, appanna la vista, toglie il fiato al solo sfiorare l’amata, al guardarla, al respirare la stessa aria che lei respira.
“Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende…”( Dante, Inferno, V 103)
“…se il coito si farà con grande amore e gran desiderio delle parti, allora il figliolo fia di grande intelletto, e spiritoso, e vivace, e amorevole.” ( Leonardo da Vinci, Studi anatomici con note sulla generazione e il carattere, c. 1506-1508, Foglio di Weimar, Schlossmuseum.)
La vasta bibliografia segue la narrazione quale testimonianza di fonti eccelse a sostegno di descrizioni delle vicende che accompagnarono la vita del ragazzo e poi dell’uomo-genio. Lodevoli anche le numerose riproduzioni di immagni, deliziosi intermezzi in bianco e nero con tratti morbidi che solo il non colore riesce a dare. Un effetto di lontane memorie che la mente stenta a ricostruire. Casali, chiese, colli, donne chine nei campi, gli occhi di Leonardo ne fermavano i colori, i nostri si appannano di nostalgia.
“Ebbe nome Lionardo’’. Un titolo dal sapore biblico. Un nome scelto da una madre che intravedeva negli occhi di quel neonato allattato solo per dodici mesi tutto quello che avrebbe reso eterno quel nome. Lionardo aveva gli occhi brillanti e curiosi, la scrutavano imprimendo nella memoria i tratti di quel viso, gli occhi velati di tristezza e il calore del latte che fluiva nella sua bocca. Non conobbe mai una donna bella come Caterina. Le sue mani la cercarono in dipinti e sculture, ma la trovò lì a Milano nella sua casa, con qualche filo bianco fra i capelli.
‘Dal piccolo borgo toscano di Vinci Caterina aveva seguito i suoi successi. Appoggiati o appesi c’erano dipinti, alcuni appena iniziati, altri quasi finiti. Li trovò belli e assai verosimili. Soffermò lo sguardo su una madonnina, colpita dalla perfezione del viso illuminato dalla gioia della maternità, e le parve familiare.’
Caterina non vedeva il figlio da undici anni, lo aspettava seduta sul cassone con tutto quello che possedeva e con i sacchetti di erbe miracolose. Quando Lui arrivò, la chiamò per la prima volta ‘Mamma’. Era il 1493, Caterina era malata, lo voleva vedere prima di morire.
Bellissimo Lionardo, bellissime le parole che ci narrano ancora di te.

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