I figli della mezzanotte di Salman Rushdie

I “figli della mezzanotte” sono i bambini nati il 15 agosto 1947, allo scoccare della mezzanotte: il momento, cioè, in cui l’India proclamò la propria indipendenza. Possiedono tutti doti straordinarie: forza erculea, capacità di diventare invisibili e di viaggiare nel tempo, bellezza soprannaturale. Ma nessuno è capace di penetrare nel cuore e nella mente degli uomini come Saleem Sinai, il protagonista di questo romanzo che, ormai in punto di morte, racconta la propria tragicomica storia; una vicenda surreale attorno a cui si dipana una saga familiare, un canto corale sullo sfondo della storia dell’India del Ventesimo secolo.

Copertina flessibile: 644 pagine
Editore: Mondadori; 1 edizione (15 dicembre 2017)
Collana: Oscar 451

 

Recensione a cura di Cristina Costa

I figli della mezzanotte, romanzo d’esordio di Salman Rushdie, inizia con un riferimento temporale ben preciso. La mezzanotte è quella del 15 agosto 1947, il giorno della proclamazione dell’indipendenza dell’India. Saleem Sinai è il primo dei mille e uno bambini nati tra la mezzanotte e l’una di quella mirabile data. Voce narrante del romanzo è Saleem che ormai arrivato alla fine della sua dolorosa e rocambolesca vita, decide di raccontare la sua storia personale a partire dalle vicende di suo nonno Aadam tornato medico dalla Germania. Tra i due Aadam dagli occhi azzurri come il cielo del Kashmir, il nonno e il figlio di Saleem, una vera e propria moltitudine di personaggi riempie le pagine del romanzo e Rushdie è bravissimo a non perderli per strada, a tenerseli stretti, convinto che “Per capire una sola vita dovete inghiottire il mondo”. Si perché Saleem è un io poliforme, poliedrico, è tutto il suo popolo, è tutti i mille e uno bambini della mezzanotte. È un personaggio in rivolta con se stesso, con la propria data di nascita, con la propria genealogia e con la propria innegabile bruttezza caratterizzata da un naso enorme, adunco e sensibilissimo. Vissuto da sempre con la convinzione di dover rivestire un ruolo fondamentale nella storia della sua nazione, superato da una sorella, la scimmia d’ottone, preso in giro per le strane deformazioni che lo rendono un brutto bambino, Saleem diventerà adulto attraverso una vita rocambolesca La memoria è uno tra i temi fondamentali del libro: Saleem sembra conservarla in salamoia come si fa col chutney per non farci smarrire in una miriade di vicende che si intrecciano, per non dimenticare i volti, i nomi, le passioni, le paure dei singoli e di una nazione. “Mettere in salamoia significa, in fondo, conferire immortalità” – afferma Saleem. Al tema della memoria si oppone quello dell’oblio e dell’amnesia come rimozione della vergogna per le molteplici nefandezze e gli innumerevoli orrori commessi da chi governa i popoli. Ma la vera protagonista indiscussa del romanzo è l’India che entra in scena ancor prima dei personaggi. Un’India popolata da figure assurde, gobbi, storpi, donne bellissime, bambini deformi, vecchi contorti, streghe e incantatori di serpenti. E poi odori, colori, rumori, suoni, sfumature del cielo, il frusciare dei sari e la durezza della terra. Tutto descritto fin nei minimi dettagli. Tutto inserito in un periodo storico ben preciso che va dal 1947 agli anni ’80. Una cavalcata temporanea che va dall’India dell’indipendenza a quella di Indira Gandhi, periodo di massima costrizione dove quasi tutte le libertà personali furono azzerate, passando per la guerra con il Pakistan e la nascita del Bangladesh. Tramite le vicende individuali emerge così il volto di un’India moderna e induista e islamica al contempo, occidentale e oberata da superstizioni antichissime, avanzata e al tempo stesso afflitta da arretratezza. Una nazione ambiziosa ma imperfetta, alla ricerca di un ruolo di primo piano sullo scacchiere mondiale, ma tristemente destinata a rimanere ai margini del mondo sviluppato. Un’India che si affranca dal colonialismo britannico e che pure rimane ancestrale, composita nei suoi innumerevoli riti, nei suoi polimorfici simboli e nelle sue millenarie tradizioni. Il romanzo di Rushdie ha un progetto ambizioso: esprimere la realtà di un popolo colto in un passaggio epocale del proprio cammino attraverso gli occhi di un bambino. L’individuale si mescola al collettivo, il privato al pubblico, la storia di Saleem con quella dell’India. Il tutto reso con una scrittura fortemente, prepotentemente personale. Lo stile di Rushdie è fluente, immaginifico, barocco. Narra vicende surreali con un tono distaccato e impassibile come se stesse descrivendo avvenimenti banali (realismo magico come Marquez). Lo scrittore indiano è straordinario nel tenere una materia narrativa eccessiva in un mirabile equilibrio di forma e contenuto per più di cinquecento pagine. Un altro accorgimento stilistico è l’uso inusuale di analessi e prolessi, fugaci e impercettibili accenni ad avvenimenti futuri che creano curiosità tenendo avvinto il lettore alle pagine
“Avrei dovuto saperlo: al passato non si fugge. Ciò che tu eri è ciò che sarai per sempre”. Questa è l’India di Rushdie, questo è Saleem Sinai.

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