I Visconti. Il sogno della corona di Daniela Pizzagalli 

La saga viscontea giunge all’apogeo: Gian Galeazzo è il primo italiano a conquistare il titolo di duca, con l’ambizione di fare dell’Italia il suo regno e di Milano una capitale europea. Pronto a tutto per raggiungere i suoi scopi ma anche colto bibliofilo e finissimo stratega, manovrando inarrestabili truppe mercenarie e spregiudicati diplomatici amplia trionfalmente il suo territorio arrivando a nord fino a Belluno e a sud fino a Perugia, e solo la morte prematura gli impedisce di conquistare anche la grande rivale Firenze. La Vipera dalla gloria al baratro: la parabola viscontea rischia l’annientamento sotto il primogenito di Gian Galeazzo, l’inetto e crudele Giovanni Maria, ma dopo il suo assassinio il fratello minore, l’enigmatico Filippo Maria, riannoda tenacemente i fili del dominio familiare. Figure di grande impatto fanno corona alle sfaccettate personalità dei tre duchi: rapaci capitani di ventura pronti a cambiare casacca a proprio vantaggio, come il Carmagnola e Francesco Sforza, papi e antipapi in lotta fra loro, umanisti che cercano nei riscoperti classici gli alti ideali calpestati nelle città italiane preda di lotte intestine, e dolenti figure di donne sacrificate negli ingranaggi della politica, come Caterina Visconti, moglie di Gian Galeazzo e figlia dell’ assassinato Bernabò.

  • Editore ‏ : ‎ Rizzoli (30 agosto 2022)
  • Lingua ‏ : ‎ Italiano
  • Copertina flessibile ‏ : ‎ 304 pagine
  • ISBN-10 ‏ : ‎ 8817161063

Recensione a cura di Claudia Pellegrini

Terzo e imperdibile volume della trilogia dedicata alla storia della dinastia milanese dei Visconti, la casata simbolo di Milano, la famiglia che riuscì a imporsi nella lotta per la supremazia che imperversava nell’Italia Trecentesca, dominando la scena politica della nostra penisola fino alla metà del secolo successivo. Daniela Pizzagalli, che è una grande esperta di Medioevo e Rinascimento nonché autrice di biografie storiche, ci racconta in maniera chiara e lineare la corsa al potere di questa straordinaria famiglia che da subito si pone come obiettivo quello di creare il più potente stato d’Italia. 

Sono anni molto duri per chi li vive, l’Italia è flagellata da guerre, pandemie e lotte di potere combattute da condottieri mercenari, e in questo scenario si muovono con lucida crudeltà gli esponenti della famiglia Visconti, uomini spregiudicati ma al tempo stesso affascinanti nella loro complessità e crudeltà. Siamo nel 1385, i Visconti sono i signori di Milano dal 1277, e adesso l’attuale signore, Gian Galeazzo, accarezza un sogno:

“Un’immagine quasi ossessiva abitava la fantasia di Gian Galeazzo Visconti e ispirava ogni sua azione: la corona di re”.

Per sedersi su di un trono però deve unificare il suo regno, che attualmente appartiene per metà a suo zio Barnabò, e come da manuale cattura quest’ultimo ed i suoi cugini, e per non essere biasimato dagli altri Stati rovescia la responsabilità dell’accaduto sul prigioniero accusandolo di aver attentato alla sua vita. Con l’unificazione dei domini viscontei Gian Galeazzo diventa il più potente tra i signori italiani, ma per poter essere incoronato re necessita di un papa che stia dalla sua parte, ma purtroppo quelli sono anni in cui la chiesa è ancora scossa dallo scisma, ci sono due papi, uno a Roma e un altro ad Avignone. Ma il nostro non si scoraggia e offre il suo sostegno all’avignonese così che possa rientrare a Roma, in cambio del favore ovviamente chiede la corona. Ma il papa in questione è scaltro almeno quanto il Visconti, e gli propone invece di poter mettere una taglia sui beni del clero ambrosiano. Poco male insomma quando c’è comunque da guadagnarci. 

È in questo momento che iniziano le mire espansionistiche della famiglia Visconti che comincia a guardarsi intorno per poter allargare i confini dello Stato. Per farlo c’è bisogno di alleati potenti, e Gian Galeazzo rivolge il suo sguardo a ovest, verso la Francia, organizzando il matrimonio tra sua figlia Valentina e il fratello del re di Francia. Ma c’è anche bisogno di tenere buono il popolino che è flagellato da dazi e gabelle, e come rendere felice il volgo se non facendo leva sull’unica consolazione che può permettersi, ovvero la gratuita fede? Semplice, edificando la più maestosa cattedrale che si sia mai vista. Stiamo parlando proprio del Duomo, il cui progetto inizia a prendere corpo in questo periodo grazie a Gian Galeazzo con la fondazione della Veneranda Fabbrica del Duomo di Milano. Le già citate mire espansionistiche di Milano destano però molta preoccupazione, i Visconti infatti con l’inganno si sono impadroniti di Padova e Verona, grazie anche all’ausilio del condottiero Jacopo dal Verme, in particolare è Firenze a dare l’allarme alla penisola: bisogna fermare Gian Galeazzo che mira ad una corona e potrebbe diventare molto pericoloso. E il Visconti è davvero una minaccia, poiché ha messo gli occhi addosso anche a Bologna che un tempo apparteneva alla sua famiglia, cosa che fomenta ancora di più lo sdegno dei fiorentini:

“Finalmente la vipera ha preso a vomitare il veleno che aveva in corpo. Ora è manifesto il proposito del cosiddetto conte di Virtù, se è virtù ingannare, violare le promesse, imporre a tutti la sua tirannide”.

Ma Gian Galeazzo va dritto per la sua strada, ora ha due figli ai quali deve assicurare uno Stato potente, e non ha tempo di preoccuparsi della costituzione della lega anti viscontea, anche perché nel 1395, con una sfarzosa cerimonia, è divenuto Duca di Milano, ma ha perso l’appoggio della Francia quando il re si è gravemente ammalato e il potere è passato in mano alla moglie che, per motivi probabilmente legati alla gelosia, ha allontanato la figlia Valentina dalla corte, indebolendo così anche il Visconti che è costretto ad assistere alla stipula di un contratto tra i francesi e i fiorentini: se Milano dovesse malauguratamente invadere Firenze i francesi prenderanno Milano. Ma il nostro Gian Galeazzo non si perde d’animo e concentra le sue mire altrove, in particolare su Mantova, ma l’impresa non va a buon fine grazie all’intervento della lega anti viscontea. Ingaggia anche un altro noto capitano di ventura dell’epoca, Facino Cane, per tentare nuovamente l’impresa, ma anche questa volta fallisce. A questo punto Venezia, che si era mantenuta sempre fuori da queste faccende, inizia anche lei temere le mire espansionistiche di Milano, e propone un trattato di pace a Gian Galeazzo nel quale è scritto che rinuncia a qualsiasi azione militare ad est delle sue terre, cosa che egli accetterà poiché la sua brama è tutta concentrata nella parte centrale dello stivale, e non in territorio veneziano. Però a Firenze si avvicina pericolosamente dopo aver conquistato le città di Pisa, Siena, Lucca e persino Bologna, cosa che fa di nuovo tremare seriamente i fiorentini che se ne lamentano con il papa:

“Noi siamo pronti a difendere la nostra libertà anteponendola alla vita, la libertà che i nostri avi ci hanno tramandato e che noi vogliamo conservare per i posteri. Tutto quello che oggi vediamo è terribile, ma il coraggio non ci viene meno, a tutto ci prepariamo per difenderci, pensando che qui davanti a Firenze si arresterà la felicità del tiranno”.

Ma la felicità del tiranno si arresta altrove e per altre cause: Gian Galeazzo è sul letto di morte. Lascia i suoi territori divisi tra i due figli e designa sua moglie Caterina come curatrice del primogenito, colui che eredita il titolo di duca. Ma appena morto si scatena il caos nel ducato poiché la vedova è una donna inesperta in queste faccende e non riesce ad evitare che la fazione guelfa e quella ghibellina inizino a rivaleggiare tra loro per accaparrarsi quanto più potere possono. E neanche una solida alleanza matrimoniale con la Francia può impedire i continui tafferugli tra le due fazioni che iniziano a diventare sempre più moleste e minacciose, e scaldano anche gli animi delle tante città assoggettate ma anche delle varie famiglie aristocratiche.

Il nuovo duca, Giovanni Maria, affiancato dalla fazione ghibellina entra in contrasto con la madre di parte guelfa, la fa imprigionare ma la donna scappa e si rifugia a Monza, ma anche lì non è affatto al sicuro:

“Giovani Maria non scarcerò la madre e il 17 ottobre ne annunciò la morte senza ulteriori spiegazioni: nessuno attribuì a cause naturali la fine dell’infelice sposa di Gian Galeazzo”.

Le faide tra le due fazioni continuano e si trasformano in una lotta senza esclusione di colpi tra i due condottieri del ducato: il ghibellino Facino Cane e il guelfo Jacopo dal Verme. Quest’ultimo a causa di dissapori vari con il duca lascia il ducato e se ne va a Venezia, ma Giovanni Maria, ormai rimasto solo, dopo aver tentato inutilmente di chiedere aiuto a tutti, Francia compresa, con Facino Cane alle porte, trova il suo salvatore nella persona di Carlo Malatesta, il quale non solo salva la città militarmente parlando, ma ne risolleva le finanze e stila una serie di consigli per il duca, che purtroppo finiscono nel dimenticatoio. La conseguenza di tutto ciò è la morte di Giovanni Maria assassinato in chiesa ad opera di una congiura il cui mandante sembra essere proprio Facino Cane.

A questo punto il legittimo successore del ducato è Filippo Maria, ma il condottiero tenta di far eleggere duca un altro candidato a lui favorevole, ma fortunatamente per i Visconti la morte di Facino Cane riesce a scongiurare un cambio di potere, e apparentemente si assiste a un breve periodo di pace. Il nuovo duca si circonda di persone fidate in modo da scongiurare il malgoverno che aveva caratterizzato il ducato di suo fratello, risolleva le finanze sposando la vedova di Facino Cane, che è ricchissima ma più vecchia di lui, designa persino un erede nella persona di un suo fratellastro che aveva cresciuto e fatto educare personalmente e stipula accordi di pace con gli stati ad occidente.

“Se suo fratello aveva affannosamente tentato di fermare la diaspora delle città lasciandole in mano a truci condottieri che erano andati a formare una nuova generazione di tiranni, avida e aggressiva, il secondogenito si rivelò degno erede di Gian Galeazzo, programmando con meticolosità la ricostruzione del ducato, pezzo per pezzo”.

Ma anche lui necessita di un condottiero di fiducia per le operazioni militari, la scelta cade sul celebre Conte di Carmagnola che diviene inizialmente un suo fedelissimo. Tuttavia vi è un lato oscuro in Filippo Maria: è ossessionato dalla superstizione e dai presunti presagi che vede in ogni cosa, è ipocondriaco a livelli patologici e intrattiene rapporti poco chiari con giovani paggi. Fa uccidere sua moglie accusandola di adulterio e intraprende una relazione con una damigella di corte, Agnese del Maino che le darà un’unica figlia. 

La questione con Firenze però non è affatto terminata, Milano ha sempre le solite mire espansionistiche e le guerre continuano senza tregua a funestare lo stivale. È in questo periodo che fa la sua comparsa sulla scena storica un altro condottiero, Francesco Sforza, colui che determinerà le future sorti del ducato. Francesco viene ingaggiato nel momento in cui il rapporto di fiducia con il Carmagnola viene meno e quest’ultimo passa dalla parte nemica del momento, ovvero Venezia, vendendo alla Serenissima, pare, segreti militari. Filippo Maria per assicurarsi la perpetua lealtà di Francesco Sforza gli offre in sposa sua figlia Bianca Maria, che attualmente è ancora una bambina, e il condottiero vede in questo fidanzamento un’ottima opportunità per il futuro: Bianca è l’unica erede del duca. Ma un inopportuno tira e molla del fidanzamento fa vacillare la fedeltà di Francesco nei confronti di Milano, tanto che quando il papa lo convoca a Firenze lui va senza indugio e accetta persino di diventare capitano generale nella lega tra il papa, Firenze e Venezia contro il ducato di Milano. C’è da precisare che gran parte del merito di questo voltafaccia è da attribuire ad un altro grande esponente della politica dell’epoca, ovvero Cosimo de Medici, con il quale Francesco ha da subito una grande intesa. Questo tradimento non va affatto giù a Filippo Maria che lo minaccia con ogni mezzo possibile, ma Francesco non cambia idea e non si fa spaventare:

“Gli spaventaggi si mettono per i nibbi e simili uccellacci, ma io non me ne curo: io fui figlio di Sforza, non di nibbio!”.

Ma Filippo Maria alla fine la spunta, e non lo fa tramite intimidazione, ma utilizzando sua figlia Bianca Maria, dicendosi pronto a darla in sposa. Peccato però che continui a rimandare la partenza della sposina, e Francesco esasperato si lascia tentare nuovamente da Venezia a rientrare nei ranghi della lega anti viscontea. A questo punto il ducato di Milano è allo stremo delle forze, la lega lo fa retrocedere sempre di più ad ogni battaglia ed è costretto a richiedere una pace che viene sugellata proprio con il matrimonio tra lo Sforza e Bianca Maria. Tutto risolto dunque? Nient’affatto, poiché Filippo Maria tenta in tutti i modi di togliere di mezzo il genero che vede come una minaccia tramite tutta una serie di alleanze che stipula e poi scioglie, mentre la sua salute già precaria inizia a vacillare sempre di più, lasciando in sospeso la faccenda della successione che si ostina sempre a rimandare nonostante sua figlia Bianca Maria abbia già due figli. 

Quando però la situazione del ducato si fa precaria e i veneziani marciano su Milano Filippo Maria, ormai sul letto di morte, esorta il genero a venire in suo aiuto e a definire quindi la questione della successione, ma Francesco, impegnato militarmente altrove, non si decide a raggiungerlo. Il duca muore dunque senza un erede e soprattutto senza aver lasciato un testamento valido che potesse definire il futuro del ducato.

“Si estingueva così, dando le spalle sdegnosamente al mondo intero, la dinastia che per un secolo e mezzo aveva dominato Milano …”.

I milanesi, terrorizzati all’idea di poter finire in mani straniere, insorgono riesumando il vecchio Comune. Nasce così la Repubblica ambrosiana.

“La Repubblica ambrosiana andava incontro a tre anni burrascosi in cui Milano fu ridotta allo stremo e assediata da nemici implacabili, tre anni di transizione verso il dominio, prima respinto poi osannato, di Francesco Sforza e Bianca Maria, fondatori di una nuova dinastia che avrebbe perpetuato, per via femminile, il sangue dei Visconti”.

Nonostante una linea narrativa non propriamente romanzata, e un susseguirsi infinito di battaglie che rendono la lettura non semplice, ho trovato questa storia dettagliatissima degli ultimi tre esponenti della famiglia Visconti molto interessante. L’autrice si rivolge ad un pubblico di amanti della storia che vogliono saperne di più, e riesce perfettamente nel suo intento. Personalmente questa lettura mi ha fatto capire meglio le dinamiche che hanno portato alla caduta dei Visconti, nonché rinnovarmi la conoscenza di alcuni personaggi storici quali soprattutto i condottieri di ventura come Jacopo dal Verme, Facino Cane e il conte di Carmagnola, dei quali conoscevo sì i nomi ma non le imprese. Un discorso a parte vale per Francesco Sforza del quale conoscevo le origini e le imprese grazie a precedenti letture.

Siamo abituati a correlare il ducato di Milano alla famiglia Sforza, ma raramente a chi li ha preceduti, e questa trilogia vuole ricordarci che è importante conoscere le origini di un fatto storico, di un paese, di una dinastia e, in questo caso, di una famiglia. I Visconti, nonostante la loro natura che oggi potremmo definire spietata e priva di scrupoli, hanno gettato le basi per la costruzione non solo del Duomo ma anche di ducato potente, uno Stato che a partire dalla loro ascesa si è mosso sulla scacchiera della storia al pari delle potenze più prestigiose. Che poi abbiano mirato troppo in alto è un altro discorso che in quel frangente, in quello specifico periodo storico, aveva una sua logica che forse oggi non comprendiamo. Teniamo a mente che l’Italia era divisa in tanti, troppi staterelli, regni, ducati, repubbliche e signorie varie che entravano facilmente in competizione tra loro e volevano primeggiare sugli altri per poter essere alla pari delle grandi potenze europee, dunque era quasi fisiologico dichiararsi guerra tra loro in nome dell’ambizione, una pulsione che non passa mai di moda.

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