Il Ghibellin fuggiasco: Dante e Cangrande della Scala di Giovanna Barbieri

Seconda edizione di Cangrande paladino dei ghibellini

Tra il 1312 e il 1314 la guerra contro la guelfa Padova diventa più cruenta.
Nel 1312 entra a Verona il poeta Dante Alighieri, al quale Cangrande della Scala concede riparo. Il rimatore decide di terminare “il Paradiso” nella Biblioteca 
Capitolare e di cercare i figli Pietro e Iacopo. Le vicende di Dante e del signore
di Verona s’intrecciano con il casato Aligari di Fumane, dove sono reclutati i
cavalieri senza terra e ricchezza Paolo e Julien de Grenier, d’origine franca.
Il cavalier Julien conduce da anni una faida contro una famiglia ebraica convertita al cristianesimo, che abita appena oltre il villaggio di Fumane.
Paolo e Caterina, la maggiore dei ragazzi perseguitati, s’incontrano per caso nel bosco Belo e s’innamorano a prima vista. La loro relazione, però, è ostacolata da Julien.

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anche in KU e presto anche cartaceo

GENERE: narrativa storica

PAGINE: 344 pagine

STRALCIO: 

PROLOGO

Anno Domini 1302

Quella mattina messer Dante Alighieri stava partecipando all’incontro di Gargonza insieme ad altri fuoriusciti Bianchi, desiderosi d’organizzare una prova di forza contro i guelfi Neri di Firenze. Sbadigliò un po’ annoiato da tutta quella prolissità, finché Lapo degli Uberti non si rivolse direttamente a lui. 

«Messer Dante, vi abbiamo scelto come cancelliere nel Consiglio dei Dodici. Avete esperienza politica e una capacità di vergare epistole in latino senza eguali» disse Lapo. «Accettate?»

Dante lo squadrò irritato, nonostante il complimento. Si era scontrato con il nobile dieci anni prima, durante la battaglia nella piana di Campaldino.

Represse le parole sgarbate che già gli pungevano la lingua e pensò alla sua famiglia ancora a Firenze e alla mancanza di fiorini. «Accetto» alla fine rispose. 

L’esilio dalla sua città natale lo aveva provato molto. Non si era aspettato d’essere condannato a morte sul rogo. Gli era stato decretato il confino per baratteria, cioè l’accusa d’aver tratto benefici personali dalle sue cariche pubbliche. Lui che si era sempre dato da fare per il bene pubblico. Era stata la fine della sua carriera politica e l’inizio, come per molti altri Bianchi di prestigio, della paura di subire violenze di ogni tipo. Per di più il suo amor proprio era ora umiliato dalla necessità di dover dipendere dagli umori dei protettori che gli concedevano asilo.

 

I mesi trascorsero veloci e Dante s’occupò sempre più spesso di questioni militari finché a giugno il Consiglio non lo chiamò, chiedendogli di recarsi a San Godenzo a trattare in favore degli Ubaldini. Accettò e si ritrovò ad avere contatti stretti con la famiglia dei Guidi di Romena e con Oberto e Guido, figli di Aghinolfo.

In quei giorni i fantasmi lasciati a Firenze lo perseguitarono e lui riprese il poema interrotto a causa dell’esilio. Non provava simpatia per i fratelli di Romena e cambiò più volte giudizio sui clan familiari incontrati. Così, verso la fine del 1302, lasciò Arezzo e si trasferì a Forlì presso gli Ordelaffi.

Si trovava in quella corte già da alcuni mesi, quando una sera Dante fu convocato alla presenza del capitano Orderlaffi e di Pellegrino Calvi, a capo della cancelleria.

«Messer Dante, penso conosciate la profezia di Gioacchino da Fiore» iniziò il capitano.

«Certamente, mio signore. Tratta l’incombere della terza era, quella dello Spirito Santo: pace, ordine, gerarchia e amore. A suo avviso, occorre che un buon principe abbia a fianco un mediatore tra il Pontefice e Cesare, ma prima bisogna individuare appunto un principe» riassunse lui.

«Desidero inviarvi in missione diplomatica a Verona, dimora di Bartolomeo della Scala, figlio primogenito di Alberto della Scala, signore della città dal 1301. Forse lui è appunto il principe della profezia che pacificherà le parti.»

«Accetto. Sono molto onorato d’andarvi. Faccio parte del governo dei Bianchi e cercherò d’indurre Bartolomeo a unirsi a noi contro Firenze» ghignò sornione.

D’altronde chi mai potrebbero mandare? Ho esperienza diplomatica e leggo il latino scorrevolmente, si vantò.

Pellegrino Calvi sospirò, forse sollevato che se ne andasse e non cercasse più di scalzarlo.

Quando giunse nella ridente cittadina, Bartolomeo, il signore della città, lo accolse con gioia assecondando ogni suo desiderio. Rassicurato dalla tranquillità del luogo, Dante provò la brama di riprendere a comporre il suo poema più innovativo, che aveva chiamato Inferno, e gli serviva appunto un posto calmo dove vergare.

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