Il mare non bagna Napoli di Anna Maria Ortese

Al suo primo apparire, nel 1953, “Il mare non bagna Napoli” sembrò a molti inserirsi in quel filone che allora e dopo venne chiamato «neorealismo». Era tutt’altra cosa. Nato dall’incontro della scrittrice con quella città – che era e non era la sua – uscita in pezzi dalla guerra (un incontro che fu insieme un addio: a Napoli la Ortese non tornerà, in seguito, praticamente mai), il libro è la cronaca di uno spaesamento. La città ferita e lacera diventa infatti uno schermo sul quale l’autrice proietta ciò che lei stessa definisce la propria «nevrosi»: una nevrosi metafisica, una impossibilità di accettare il reale e la sua oscura sostanza, la cecità del vivere, un orrore del tempo che ogni cosa corrode e divora – e insieme il riconoscimento del «cupo incanto» della città, del mondo. Tutto il libro, con la sua scrittura «febbrile e allucinata» e al tempo stesso rigorosissima, è un grido contro questo orrore, da cui lo sguardo – come quello della bambina Eugenia il giorno in cui mette gli occhiali, nel primo, indimenticabile racconto – vorrebbe potersi distogliere: e non può.
La presente edizione è accompagnata da due testi del tutto nuovi e preziosi, scritti dall’autrice ripensando questo suo libro: per il lettore saranno la guida più sicura.

Copertina flessibile: 176 pagine
Editore: Adelphi; 1 edizione (21 maggio 2008)
Collana: Gli Adelphi
Lingua: Italiano
ISBN-10: 8845922855
ISBN-13: 978-8845922855

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Recensione a cura di Sara Valentino

Anna Maria Ortese nasce a Roma nel 1914, è originaria di Napoli per parte di madre e vi tornerà due volte nel corso della vita. La morte dell’amato fratello, improvvisa e dolorosa, creando una profonda lacerazione in lei, sarà il momento in cui deciderà di iniziare a scrivere.

Questo libro, che mi è stato regalato e per mia natura cerco sempre un po’ del donatore nei libri che ricevo, è stato una bella e incredibile sorpresa. Si tratta di racconti e non di un romanzo, racconti che sono, soprattutto i primi, finestre su un mondo: la Napoli del dopoguerra.

Della città di Napoli l’autrice non si dimenticherà mai, anche quando sarà costretta a lasciarla e proprio in virtù della critica all’ultimo capitolo di questo libro, dedicato agli scrittori.

Per la Ortese Napoli rappresenta un forza incredibile, un compendio, un’orchestra fatta di una miriade di emozione e dove tutto è amalgamato alla perfezione anche gli opposti: il bene e il male, felicità e dolore e che tutte le voci umane in una magica confusione restano immortali.

“Senza che queste parole la ferissero veramente, perché da tempo era già come inconsciamente preparata a una vita priva di gioia”

Il primo racconto, forse quello che ho amato di più, parla di una famiglia in difficoltà e di una bambina, Eugenia, che non ci vede bene. La sua gioia nell’attesa di ricevere gli occhiali che le permetteranno di vedere è palpabile, commovente, emozionante. La spesa di ottomila lire è folle per loro, ma la zia farà in modo di acquistare gli occhiali alla nipote.

“Questo persistere di umiltà in un così continuo coraggio, questa dignità del tenersi distante da chi essa riteneva salvo, mi imposero una certa calma, e mi dissi che don avevo il diritto di mostrarmi debole”

Uno scritto, un testo che traspare essere una nevrosi forte, un grido di dolore nel voler raccontare il male, il dolore di una Napoli uscita a pezzi dalla guerra. E’ bellissimo quando viene descritta l’immagine del profumo di sugo e di pomodoro che si sente per le vie la domenica, quell’odore che sa tanto di famiglia, di casa.

“Mi pareva che, appena uscita, avrei gridato, e sarei corsa ad abbracciare le prime persone che avessi incontrate.”

Una recita a volte continua, alla quale il popolo è ormai abituato si contrappone a compostezza durante un funerale, all’umiltà e alla dignità di padri di famiglia e madri che accudiscono il loro piccolo in una improvvisata culla ricavata da una cassetta di Coca Cola. E’ doloroso e lacerante percorrere strade luride, sporche guardare la povertà contrapposta alle zone poco più residenziali. Strade defunte, questo termine è immenso che utilizza l’autrice, ma la sua prosa è un’opera teatrale indescrivibile a mio parere per l’intensità delle parole che racchiudono una giostra di colori e di nero, si sente la tempesta che ha dentro l’autrice. Racconta di un rumore continuo in una Napoli inquieta ma speranzosa.

“Quell’uomo, quella famiglia, non ritornavano mai più alla superficie del pozzo, e neppure ne uscivano, benché in un primo tempo fosse parsa cosa facile. I bambini, una volta lindi e sereni, in quel buio si coprivano d’insetti e i loro volti diventavano sempre più gravi e pallidi”

Bambini nudi, scalzi, malati, rachitici senza futuro, un senso di desolazione e oppressione. Farsi mettere in castigo per assaggiare una sola caramella al limone.. lo sentite questo gelo?

“Questa infanzia, non aveva di infantile che gli anni. Pel resto, erano piccoli uomini e donne, già a conoscenza di tutto, il principio come la fine delle cose, già consunti dai vizi e dall’ozio, dalla miseria più insostenibile, malati nel corpo e stravolti nell’animo, con sorrisi corrotti o ebeti, furbi e desolati nello stesso tempo”

Il mare è uno schermo, quello su cui l’autrice proietta il “male oscuro di vivere”. Non vuole offendere Napoli, solo dare un volto a chi è stato un muto testimone della Storia, lo si comprende dal suo amore per questa città e soprattutto quando dice che chiunque ci sia stato, si sentirà sempre un esule altrove.

 

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