La Battaglia della Selva Litana

a cura di Giancarla Erba
216 a.C. : I Romani hanno appena subito una cocente sconfitta nella battaglia di Canne, le perdite sono state immense e l’esercito fatica a ricostituirsi; nonostante ciò il Senato, mai sazio di bottini e imposizioni, vuole obbligare i Galli Boii a rinunciare all’alleanza con i punici di Annibale e perciò incarica Lucio Postumio in odore di consolato, di prendere 25.000 uomini e recarsi a nord per far scendere i Boii a più “miti” consigli. Annibale infatti sta mietendo vittorie su Roma con l’aiuto dei celti mettendo l’Urbe in serissima difficoltà e per questo dovevano essere fermati, a ciò va unita la considerazione che durante la buona stagione i Romani erano soliti effettuare delle puntate offensive verso la Romagna allo scopo di razziare i raccolti, i villaggi e le piccole fortificazioni collinari. Postumio quindi con non poca fatica, mette insieme due legioni e parte verso il nord imboccando quella che oggi conosciamo come “la via Emilia” che ad un certo punto passava attraverso una foresta “… Silva erat vasta- Litanam Galli vocabant” (una vasta foresta che i Galli chiamano Litana) Tito livio.
Dentro quella foresta, quel piccolo esercito incontrerà il proprio destino. Ma lasciamo la parola ad uno storico del tempo, Tito Livio che ci racconta come andarono i fatti:

«L’esercito di Postumio doveva passare per una vasta selva, chiamata Litana. Ai lati della strada, a destra e a sinistra, i Galli segarono i tronchi degli alberi di questa selva, in modo che, stando immobili, apparivano ritti; al primo urto sarebbero, invece, caduti. Postumio aveva due legioni romane ed aveva arruolato tanti alleati nelle zone adriatiche, da poter condurre contro i territori nemici cinquemila soldati.

I Galli, essendo collocato sui bordi estremi della selva, appena la schiera dei Romani entrò nella zona boscosa, diedero una spinta agli alberi che avevano tagliato per ultimi. Questi caddero l’uno sull’altro essendo di per sé instabili e mal piantati nella terra e si abbatterono sulle armi, sugli uomini e sui cavalli dei Romani con una doppia strage, dalla quale a stento scamparono dieci uomini. Poiché la maggior parte fu uccisa dai tronchi d’albero e dai frammenti dei rami, i Galli con le armi in pugno, circondata tutta la zona, massacrarono il resto dei soldati romani, spaventati per l’inaspettato disastro.

Di tanti uomini solo pochi furono fatti prigionieri; questi furono circondati mentre tentavano di raggiungere il ponte, che in precedenza era stato assediato dai nemici. Qui combattendo cadde Postumio dopo aver fatto ogni sforzo per non essere preso. Le spoglie del comandante e il suo capo troncato furono portati dai Boi esultanti al loro tempio più venerato. Secondo il loro costume, scuoiarono poi il cranio, le cui ossa nude coprirono con uno strato d’oro cesellato, per servirsene come vaso sacro per le libazioni nelle cerimonie solenni e nello stesso tempo come calice per i sacerdoti ed i capi del tempio. Anche il bottino non ebbe per i Galli minore importanza della vittoria; infatti, benché gran parte degli animali fosse stata abbattuta nella strage della selva, tuttavia furono ritrovate tutte le altre cose giacenti lungo il tratto occupato dalla schiera dei caduti poiché nulla era stato portato via, essendo nessuno fuggito.»

La notizia della disfatta subita nella Selva Litana dal console Lucio Postumio giunse a Roma in un momento particolarmente delicato, quando gli animi erano ancora prostrati per il recentissimo disastro di Canne, la battaglia più grande e sanguinosa di tutta l’antichità occidentale, che, per un momento, aveva fatto vacillare anche la saldezza degli animi più intrepidi; e si rovesciò come una doccia gelata sulle aspettative di quanti speravano che, almeno dalle frontiere settentrionali del dominio romano, giungesse qualche buona notizia, a rialzare la fiducia nel domani, tanto che i bottegai, per la paura di vedere il nemico dentro la città, chiusero i battenti. Dopo questa rovinosa sconfitta, la foresta fu rasa al suolo e trasformata in campi da coltivare.

Tito Livio descrive la morte del proconsole Lucio Albino Postumio e del suo esercito, e sappiamo che il cranio del romano fu ripulito e svuotato, come la zucca di Ognissanti, per adempiere, previa doratura, alla nobile funzione di vaso sacro. Il cranio del console ucciso nel fatto d’arme, ricoperto di lamine d’oro, venne conservato in un tempio della Bologna gallica per servire alle libagioni rituali dei sacerdoti. Ovvero dei DRUIDI.
Questo rito veniva riservato solo ai nemici particolarmente valorosi e serviva per volgere i loro passati poteri a favore dei vincitori. Anche la saga irlandese di Cu˘ Chulainn fa riferimento a questo rituale, quando descrive il castello del re Conchobar, in cui un vasto locale era adibito all’esposizione delle teste tagliate. Lo stesso Cu˘ Chulainn, nel racconto irlandese del Festino di Bricriu, deve tagliare la testa del gigante Uath. Sempre nel Mabinogion, Bran il Benedetto, ferito a morte, viene decapitato su sua stessa richiesta, e la reliquia proteggerà i compagni sopravvissuti per sette anni, fino alla sepoltura sulla Bianca Collina di Londra: secondo la tradizione, il miracoloso cranio difenderà la città dalle invasioni, finchè sarà dissepolto da Artù. In Sir Gawain e il Cavaliere Verde, straordinario romanzo medioevale inglese, il tema della decapitazione, tratto dagli antichi miti dei Celti, diventa occasione di profonde rivelazioni metafisiche.

Numerose testimonianze archeologiche confermano l’uso sacrale dei crani da parte dei Celti. Nell’oppidum celto-ligure di Entremont (Aix-en-Provence), nel Sud della Francia, capitale e, al tempo stesso, santuario dei Salii, sono stati ritrovati dei pilastri in pietra calcarea, con il rilievo di dodici crani: essi facevano parte della “Sala delle teste”, distrutta, insieme al santuario, dai Romani che temevano quel luogo sacro, in quanto potenziale centro di una futura rivolta. A Roquepertuse, sempre in Provenza, tre pilastri in pietra, in origine policromi, reggevano un portale con nicchie per esporre le teste umane”
Per quanto riguarda questa battaglia sostanzialmente vinta con l’aiuto degli alberi, molti storici fanno riferimento ad un rimando leggendario “La battaglia di Cad Goddeau” addirittura pensando che vi sia stata un’ispirazione nel racconto di Tito Livio, ma questo poema è da far risalire al XIII sec. quindi fortemente postumo e con un obiettivo sostanzialmente diverso in quanto il fine segreto del poema è scoprire il nome della divinità adorata dal nemico. Lo scontro descritto da Gwion non è una battaglia frivola, e neppure una battaglia vera combattuta fisicamente, bensì uno scontro svoltosi sul terreno intellettuale e combattuto nella lingua dei dotti.
La battaglia della Selva Litana fu l’ultima grande vittoria dei Celti sui Romani che 25 anni dopo avevano conquistato tutta la Gallia Cisalpina.

Questa è la versione della Battaglia degli Alberi di Robert Graves:
Cad Goddeu
Le cime del faggio
hanno germogliato tardi,
si sono mutate e rinnovate
dal loro stato avvizzito.
Quando prospera il faggio
anche se incantesimi e litanie
aggrovigliano le cime delle querce,
c’è speranza per gli alberi.
Ho spogliato la felce,
grazie a tutti i segreti che ho spiato,
il vecchio Math ap Mathonwy
non ne sapeva più di me.
Giacchè di nove tipi di facoltà
Dio mi ha fatto dono:
io sono il frutto dei frutti raccolti
da nove specie di alberi:
prugna, mela cotogna, mirtillo, mora,
lampone, pera,
ciliegia selvatica e bianca
insieme alla sorba partecipano di me.
Dalla mia sede a Fefynedd,
forte città,
ho guardato gli alberi e le creature verdi
affrettarsi.
Rifuggendo dalla gioia
di buon grado si disponevano
sotto forma delle lettere principali
dell’alfabeto.
I viandanti si stupivano,
i guerrieri erano sgomenti,
al rinnovarsi di scontri
come quelli sostenuti da Gwydion;
sotto la radice della lingua
una lotta spaventosa,
e un’altra che infuria
dietro, nella testa.
Gli ontani in prima linea
principiarono lo scontro.
Il salice e il sorbo selvatico
furono tardi a schierarsi.
L’agrifoglio verde scuro
oppose risoluta resistenza;
è armato di molte punte di lancia
che feriscono le mani.

Dei passi dell’agile quercia
risuonarono cielo e terra.
“Robusto Guardaportone”
è il suo nome in tutte le lingue.

Grande fu la ginestra spinosa in battaglia
e l’edera in fiore;
il nocciolo fu arbitro
in questo momento incantato.

Rozzo e selvaggio fu l’abete,
il frassino crudele;
non si volge di lato per lo spazio di un piede,
punta diritto al cuore.

La betulla, seppur nobilissima,
non si armò che in ritardo,
segno non di codardia
ma di alto rango.

L’erica offriva consolazione
alla gente sfinita dalla fatica,
i pioppi durevoli
molto s’infransero.

Alcuni di essi furono scagliati via
sul campo di battaglia
a causa dei vuoti scavati tra loro
dalla potenza del nemico.
Valenti capi furono il prugnolo
con il suo frutto cattivo,
e il biancospino non amato
che indossa al stessa veste.

Il giunco che agile incalza,
la ginestra con la sua covata,
e il ginestrone che si comporta male
finchè è domato.

Il tasso che elargisce la dote
ristette imbronciato al margine della battaglia,
insieme al sambuco lento a bruciare
tra i fuochi che ardono.

Molto furente la vite
che ha gli olmi per accoliti;
con vigore la lodo
ai reggenti dei regni.

E il benedetto melo selvatico
che ride orgoglioso
dal “Gorchan” di Maelderw,
accanto alla roccia.

Indugiano al riparo
il ligustro e il caprifoglio
senza esperienza di guerra,
e il pino cortese.

Ma io, seppur ignorato
perchè non ero grande,
ho combattuto, o alberi, tra le vostre schiere,
sul campo di Goddeu Brig.

Ispirandosi a questo poema la cantautrice Tori Amos ha scritto la canzone Battle of trees compresa nell’album Night of Hunters del 2011

Bibliografia:
Tito Livio – Ad Urbe condita
Abbiati, Soldati – I Mabinogion
AA.VV. – Religion et societé en Gaule
Robert Graves – La Dea Bianca

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