La gabbia di vetro di Colin Wilson

Un serial killer semina il panico a Londra. Dopo aver squartato le sue vittime, lascia delle misteriose scritte sui muri lungo il Tamigi: versi del poeta mistico William Blake. Qual è il motivo di una tale inaudita ferocia? E quale significato recondito nascondono quei versi? Non resta che chiedere aiuto al più grande esperto inglese di Blake: Damon Reade, un giovane studioso che vive isolato nelle campagne del Lake District. Tutti gli indizi portano a un certo Gaylord Sundheim, ma quando Damon si trova a tu per tu con il presunto assassino, le sue certezze crollano: un così profondo estimatore di Blake sarebbe davvero capace di compiere quei misfatti? Sullo sfondo della ‘swinging London’ degli anni ’60, un thriller intellettuale che sviscera con giocosa leggerezza e insaziabile curiosità temi come l’oppressione, la perversione, il superamento dei confini della conoscenza e i risvolti più inquietanti della passione.

  • Editore ‏ : ‎ Carbonio Editore (29 novembre 2018)
  • Lingua ‏ : ‎ Italiano
  • Copertina flessibile ‏ : ‎ 265 pagine

Recensione a cura di Claudia Pellegrini

Siamo a Londra negli anni 60 e una serie di inquietanti omicidi sconvolge la metropoli. Nove corpi fatti a pezzi e lasciati in prossimità del Tamigi, dopo ben quattordici mesi dall’inizio della mattanza, ancora non hanno avuto giustizia. La polizia brancola nel buio, non ha alcuna pista da seguire, se non alcune scritte lasciate dall’assassino in prossimità dei corpi. Si tratta di citazioni di Blake, poeta, pittore e incisore, considerato secondo la morale del tempo pazzo a causa delle sue idee stravaganti, ma apprezzato successivamente per la creatività e per la visione filosofica del suo lavoro.

“Fino a quando il suo cervello è una roccia e il suo cuore

in un pantano carnale formino quattro fiumi

oscurando l’immensa sfera di fuoco”.

Damon Reade, che è un esperto di Blake, viene interpellato dagli inquirenti per un parere circa le citazioni. È una sorta di eremita, vive tra le montagne immerso in una pacifica solitudine, dedito allo studio, alle lunghe scarpinate e alla contemplazione della natura selvaggia. Riceve molte lettere da parte degli esperti del settore e di semplici estimatori, dunque potrebbe essere entrato a contatto con l’assassino senza neanche saperlo. La sua unica compagnia è un libraio antiquario Urien Lewis, uomo bizzarro, dalla cultura smisurata e senza peli sulla lingua, con il quale si confida circa un indizio che la polizia ha trovato su una delle vittime, un bigliettino sul quale è scritto un nome: John Cox.

Si tratta di un personaggio menzionato in The Life and Death of Mr Badman di Bunyan, e non è minimamente legato a Blake, tuttavia potrebbe avere un significato dato che si tratta di un suicida. L’assassino è un probabile suicida? Ha tentato forse di uccidersi? Nonostante la ritrosia di Reade ad essere coinvolto in una faccenda che è così lontana dal suo mondo solitario ma perfetto nella sua grande tranquillità, e spinto dall’amico che riesce a stuzzicarne la curiosità per il caso che vede direttamente coinvolta l’opera Blake, si convince a recarsi a Londra per saperne di più, magari indagando per conto suo:

“Se conosce Blake, non può essere un’anima persa fino a questo punto, non credi?”.

Reade da inizio alla sua personale investigazione partendo da una delle tante lettere che riceve quotidianamente, supportato dal suo amico di vecchia data, Kit Butler, un musicista che lo ospita nel caseggiato in cui vive, luogo che sembra essere un crogiolo di persone poco raccomandabili e dalla dubbia reputazione. La lettera incriminata però si rivela un fiasco: l’uomo che l’ha scritta è deceduto prima dell’inizio degli omicidi. Reade e Butler tuttavia non si scoraggiano, ormai si sono appassionati alla vicenda e in qualche modo si sentono coinvolti. Grazie alle conoscenze nel mondo del giornalismo individuano tutti i punti in cui sono stati rinvenuti i cadaveri, li segnalano su di una cartina e si recano sui posti per fare un sopralluogo in cerca di eventuali nuove piste da seguire. Reade ha una sua teoria:

“Sto lavorando a una teoria secondo cui l’assassino potrebbe essere un uomo il cui padre lo ha costretto a leggere Blake da bambino, qualcuno che esprima la propria rivolta contro il padre scribacchiando citazioni di Blake vicino ai corpi”.

La letteratura in merito insegna che individui che uccidono con freddezza e serialità spesso concludono la loro vita volontariamente, tuttavia Reade non è molto convinto che il loro uomo possa essere un tipo che si suicida:

“La violenza del suicidio è stata riversata contro altre persone”.

Forse ha tentato di uccidersi e non ci è riuscito? Magari si è gettato proprio in quel fiume presso il quale fa rinvenire le sue vittime e qualcuno lo ha tratto in salvo? E se è così, sicuramente i vari ospedali siti in prossimità delle acque del Tamigi potrebbero averlo accolto come paziente in seguito all’insano gesto. Per Reade dunque vale la pena controllare, nonostante non abbiano un nome ma solamente la certezza che si tratti di un uomo dalla stazza imponente. E infatti è proprio così. Un uomo che corrisponde alla loro descrizione sembra essere stato tratto in salvo dalle acque prima che iniziasse la catena di omicidi, si tratta di un americano, tale Gaylord Sundheim, un nome che si collega perfettamente a Blake dato che il suo cognome è legato ad un opuscolo in merito.

Nonostante la cosa più saggia da fare sia contattare la polizia, segnalare loro l’uomo e farsi da parte in modo che gli inquirenti possano fare il loro lavoro, ormai la caccia al mostro è diventata una sorta di missione per Reade che non vuole lasciare Londra prima di aver risolto il rebus, è affascinato dalla personalità del presunto assassino e vuole scoprirne ogni segreto.

Dalle indagini su Sundheim risulta che il vero autore dell’opuscolo è suo padre, ormai deceduto, un personaggio alquanto disturbato, non solo violento ma anche mentalmente compromesso, che, a quanto si mormora, odiava suo figlio. Questo potrebbe spiegare molte cose, ma non basta per incastrare l’americano che, a seguito di un incontro con Reade si rivela sì un personaggio disturbato, ma apparentemente innocuo:

“È chiaramente una personalità scissa. È preda di stati di tensione nervosa”.

L’appetito pantagruelico dell’americano, il suo bisogno costante di alcool e il cattivo rapporto con la sua famiglia, madre ninfomane compresa, è sicuramente indice di profondo disagio, e disegnano una persona ormai compromessa mentalmente, ma è davvero lui l’assassino?

“Perfino i pidocchi sono incapaci del male a cui la nostra immaginazione li spinge”.

Questo thriller è stato scritto nel 1966, dunque un’epoca lontana da tutto quel sensazionalismo, quello splatter, quel seguire passo passo le orme e le gesta insane dell’assassino ai quali siamo abituati leggendo una storia contemporanea. È un giallo colto, e questo potrebbe far storcere il naso a più di qualche lettore che leggendo citazioni di autori famosi, e non solo di Blake che rappresenta un po’ il cuore e il cervello della vicenda, avrebbe a che fare con una lettura eccessivamente pesante da digerire. Ma non è esattamente così. 

Sicuramente non si può negare che i personaggi della storia citino due volte su tre un autore nei loro dialoghi, risultando forse un tantino pesanti, poco spontanei, troppo lontani dalla realtà, ma bisogna pur tener conto che abbiamo a che fare con un tipo di letteratura vintage, molto lontana da quella a cui siamo abituati, raffinata e garbata persino nella descrizione di avvenimenti e situazioni che non hanno nulla di elegante. 

La gabbia di vetro è un enigma filosofico continuo in cui il personaggio di Damon Reade, così lontano dall’essere il classico protagonista di un thriller, più che andare a caccia di un assassino è in cerca di un significato da dare alla vita stessa, vuole indagare nei meandri più oscuri della mente dell’uomo, in questo caso dell’assassino, più che catturarlo e vederlo rinchiuso in prigione o in un istituto per malattie mentali. Perché uccide? Cosa lo ha portato a compiere tali azioni? Che cosa rende un uomo un assassino e un altro no?

E questo ovviamente rende il nostro investigatore improvvisato un personaggio in un certo senso ambiguo, almeno quanto l’assassino al quale dà la caccia. Damon Reade infatti sembra esserne quasi affascinato, non lo segnala alle autorità quando tutto farebbe pensare che è proprio lui l’uomo che stanno cercando, passa con lui del tempo, non lo teme stranamente, quasi riesce a comprendere certe sue stranezze, certi vizi mentali, si può affermare che simpatizzi con il nemico. Questo risulta molto atipico in una storia del genere, ma è contagioso: anche chi legge non può fare a meno di simpatizzare, o meglio, quasi comprendere i meccanismi complessi della psiche umana che potrebbero spingere un individuo dal passato altamente disturbante a sfogare eventualmente la propria rabbia, la frustrazione e l’odio su persone innocenti.

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