La leggenda della Finestra sempre aperta

A cura di Natalia Lenzi

La parola Leggènda riporta al significato di cose da leggersi, cose che meritano di essere lette. Eventi religiosi, eroici, cavallereschi per i quali le esigenze di esaltazione ed esemplarità necessitano di ingannare l’oblio del tempo ma dei quali la fantasia popolare si è impadronita deformando l’elemento storico fino ad arricchirlo di particolari inventati, fantastici e mirabolanti.

E’ una lettura da farsi comodamente sprofondati in una confortevole poltrona, a bassa voce nel calore del fuoco di un camino, in un alone di luce a delimitare l’oscurità circostante, con il solo crepitio del legno ad esaltare la voce rivolta ad un piccolo uditorio. E’ un racconto da narrare passeggiando piano lungo i corridoi, le sale, dei castelli e dei palazzi dove in un tempo lontano la storia ha preso vita con il lento calpestare dei pavimenti ad accompagnare, benevolo o inquietante,  ogni parola rivolta agli ascoltatori.

Spesso le leggende sono popolate, animate, da fantasmi; a voler mostrare quanto certi legami, certi sentimenti, non si arrendono nemmeno dinanzi la morte. La leggenda della Finestra sempre aperta, non fa eccezione.

Ugolino di Jacopo Grifoni, originario di Altopascio, pare copista e chierico, forse anche mercante, spese tutta la sua vita a servizio della famiglia dei Medici. Prima fu segretario del duca Alessandro poi, con ugual mansione, servì Cosimo I che gli affidò in più occasioni, ogniqualvolta fosse necessario un esperto del mondo delle corti, soprattutto di quelle romane, i propri giovani figli. La fortuna di Ugolino crebbe sia al crescere dei titoli che gli venivano concessi e delle cariche di cui era insignito da Cosimo I, sia per la saggia carriera ecclesiastica. Al fine di sancire la propria ascesa politica e far mostra delle ricchezze accumulate, il Grifoni acquistò intorno alla metà del XVI secolo una fila di semplici case che si affacciavano su piazza Santissima Annunziata, ancor oggi una delle più belle piazze di Firenze, con l’intenzione di demolirle e sostituirle con un palazzo capace di dar il giusto lustro alla propria famiglia. Il palazzo, affidato all’estro e alle mani di scultori e architetti, fu realizzato per la maggior parte delle strutture principali in stile rinascimentale a mattoni rossi durante il ventennio successivo all’acquisto delle case. Ciò che però più inorgogliva Ugolino, era la fiera esibizione sulla bella facciata dell’inconfutabile testimonianza dello stretto legame di chi vi abitava con la famiglia dei Medici. Cosimo I aveva infatti concesso al fidato segretario il privilegio di inserire nell’arma della famiglia alcune piccole, ma significative, variazioni araldiche. Lo stemma dei Grifoni vantava infatti la presenza delle tre palle medicee; unica casata a cui Cosimo I concesse l’onore di inserirle nel proprio blasone.

La leggenda cinquecentesca narra dell’amore sincero tra un giovane rampollo dei Grifoni e  una bellissima ragazza. Un amore talmente forte che le consuete trame del matrimonio d’interesse intessute dalle due nobili famiglie che avevano combinato l’unione si piegarono, inermi, dinanzi alla rarità di una coppia che davvero si amava profondamente. 

I due giovani, concluso il rito delle nozze, occuparono parte delle stanze di Palazzo Grifoni; lodata per la beltà e la dolcezza, la ragazza fu sin dal primo momento gradita, rispettata e ben accetta dalla famiglia dello sposo. 

Appena però il tempo di assaporare l’amore e la vita matrimoniale, che il giovane Grifoni fu chiamato alle armi per combattere una delle tante guerre che in quel tempo contrapponevano una città all’altra per politica, economia e quant’altro. Il giovane non poteva esimersi dal partire, lo costringevano la propria dignità e la difesa dell’onore della nobile famiglia alla quale apparteneva. Ogni famiglia patrizia di Firenze avrebbe mandato in guerra i propri rampolli ed i Grifoni avrebbero fatto altrettanto. 

La separazione fu talmente dolorosa che ai due sposi parve che i loro cuori si fossero spezzati all’unisono per sempre; non ci fu parola, abbraccio, carezza, bacio capace di placare quel dolore. La ragazza salì svelta al primo piano e si affacciò all’ultima finestra sul lato destro della facciata del palazzo, così da poter dare un ultimo saluto tra le lacrime al suo sposo. Lo vide partire a cavallo e attraversare la piazza sulla quale la finestra si apriva accompagnato da uno scudiero carico dell’armatura e dello stendardo di famiglia.

Afflitta dal dolore, mormorò : <<A questa finestra ti aspetterò finché non tornerai a me.>>

E così fu. Trascorsero giorni, settimane, mesi. Durante l’assenza del suo amato, la ragazza sedeva dinanzi quella finestra su di una panca vicina, ingannando il tempo ricamando, leggendo e spiando la vita che scorreva poco al di sotto nella piazza confidando di vederlo tornare, di riconoscerlo tra i fiorentini e gli stranieri che si affaccendavano svelti o indolenti dietro ai loro affanni. Sempre più spesso consumava persino i pasti seduta sopra quella piccola panca, con gli occhi rivolti alla piazza, certa che lo avrebbe presto visto comparire. 

La finestra era sempre aperta, di giorno e di notte. 

Ad ogni straniero che visitava Palazzo Grifoni, chiedeva dell’andamento della guerra, delle battaglie vinte o perse, di qualunque notizia potesse portarle speranza. I forestieri, conoscenti, politici, notai, impiegati amministrativi, prelati, che facevano regolare visita ai Grifoni scuotevano piano la testa, si stringevano mesti nelle spalle; la guerra non andava bene come avrebbe dovuto ma niente si sapeva di quel cavaliere del quale tanto si preoccupava. 

Nemmeno quando arrivò la nefasta notizia, l’annuncio che nessuno avrebbe voluto ascoltare, della sorte di disperso che era toccata al giovane sposo, ella si arrese. Fedele al giuramento fatto il giorno del loro distacco e in mancanza della prova di una morte certa, continuò imperterrita a volgere lo sguardo oltre la finestra tra una pagina e l’altra, tra un punto di ricamo e l’altro, tra una preghiera e un pasto.

Ai mesi seguirono gli anni e la giovane ragazza divenne una donna, un’anziana signora, una dolce vecchia e infine morì. Morì davanti a quella finestra, dove aveva trascorso l’intera esistenza. 

La famiglia Grifoni, portato via il corpo e completate le esequie, si apprestò a riordinare la stanza e a chiudere la finestra serrando quindi gli scuri ma non appena tolta la vista verso la piazza si spensero d’improvviso i lumi, si alzò un vento gelido; i mobili iniziarono a tremare, i libri e gli altri oggetti presero a volteggiare e i quadri appesi alle pareti a cadere. I parenti e la servitù erano talmente terrorizzati e increduli che mancò loro persino il coraggio di parlare. Rimasero tutti inchiodati al pavimento dalla paura, incapaci di respirare, con le mani tremanti alle labbra livide e gli occhi spalancati, tutti tranne una serva che svelta tornò ad aprire la finestra. E tutto, d’un tratto, cessò. 

Da quel giorno, più di quattro secoli or sono, a dispetto delle diverse famiglie che si sono alternate nella proprietà del palazzo e le sue tante ristrutturazioni, quella finestra non è mai stata chiusa e quando i vetri vengono accostati per i rigori degli inverni, le persiane rimangono sempre prudentemente socchiuse così che lo spirito della ragazza possa ancora vegliare sulla piazza in attesa del suo giovane sposo. 

Ancora oggi, chi visita piazza Santissima Annunziata e volta lo sguardo verso il grande palazzo rosso all’angolo con Via de’ Servi, oggi noto come Palazzo Budini Gattai, non può che notare l’ultima finestra posta all’estrema destra del primo piano; l’unica che anche quando le altre sono serrate, quelle di fianco, al piano superiore e inferiore, è sempre aperta giacché ogni volta in cui qualcuno ha provato a chiuderla qualcosa di strano in quella stanza è avvenuto.

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