LE PRINCIPALI BATTAGLIE DI BRACCIO FORTEBRACCI, CONTE DI MONTONE

Capitolo 4: La battaglia de L’aquila – 2 giugno 1424

Bracceschi
Esercito papale
Comandante: Braccio Fortebracci
Comandante: Jacopo Caldora
Forze: 3.200 cavalieri, 6.000 fanti
Forze: 10.000 fanti, 3.360 cavalieri; migliaia di cittadini aquilani
Perdite: 1.000 morti, migliaia di feriti
Perdite: sconosciute, certamente ingenti

4.1 Contesto. Perugia e il suo contado erano da secoli Patrimonium Sancti Petri, ossia parte del territorio pontificio, ciononostante il Comune aveva sempre governato con ampia autonomia e negli ultimi decenni, dopo il caos in seno alla Chiesa seguito al periodo avignonese e allo Scisma che aveva prodotto la contemporanea presenza di tre papi, la città era divenuta praticamente indipendente.
Nel 1417 però, con l’elezione di Martino V (Oddone Colonna, della nota casata romana) e la ricomposizione dello Scisma, la sede pontificia fu ristabilita a Roma; il nuovo papa fece subito capire che non avrebbe gradito interferenze al suo potere nei tradizionali domini della Chiesa. Una simile politica non poteva che collidere con quella di Braccio, il quale al contrario mirava ad espandere l’influenza di Perugia in direzione dell’Adriatico e a creare un vero e proprio stato autonomo, elidendo proprio i territori che da sempre il Papato considerava sottoposti al proprio potere temporale.
In questa sede sarebbe troppo lungo riepilogare tutte le fasi del conflitto che ne scaturì. Basti dire che Braccio fu scomunicato, perdonato, e poi ancora scomunicato (stavolta definitivamente), e che a nulla servì un incontro organizzato a Firenze tra Martino V e lo stesso signore di Perugia. Prima che il neoeletto papa facesse ritorno da Costanza, Braccio invase con il suo esercito Roma, ed era dai tempi di Porsenna che un esercito umbro non metteva piede da nemico nell’Urbe; respinse inoltre un colpo di mano volto a strappargli il controllo di Assisi, che venne assaltata, riconquistata e duramente punita.
Dopo alterne vicende, vacillanti tregue, reciproci tradimenti e cruente battaglie, nel 1423 la situazione era ancora in stallo. Braccio si lanciò alla conquista degli Abruzzi, ma trovò una strenua resistenza dinanzi alle mura de L’Aquila, dove i cittadini, animati da Antonuccio Camponeschi, non ne vollero sapere di riconoscere l’autorità del condottiero e, fedeli al papa, respinsero furiosamente per mesi ogni tentativo di assalto. L’assedio andò avanti per tutto l’inverno in condizioni estreme, tra fame, malattie, ghiaccio e neve. I Bracceschi riuscirono progressivamente a impadronirsi di numerosi castelli in tutta la valle dell’Aterno, riducendo sempre di più lo spazio di manovra degli Aquilani, che però non cedettero.
L’esercito di Muzio Attendolo Sforza, stimato rivale di Braccio, che il papa aveva incaricato di liberare L’Aquila, non giunse mai a destinazione, perché il condottiero morì tragicamente nel guadare il fiume Pescara. Era l’inizio di gennaio del 1424. La notizia, anziché rallegrare Braccio, lo gettò nel più cupo sconforto: infatti una profezia legava i due sin da quando s’erano battuti assieme sotto le insegne di Montefeltro, vaticinio secondo cui quando uno dei due sarebbe morto, l’altro lo avrebbe seguito di lì a poco.
Braccio sembrò crederci e nei mesi successivi il suo morale ne risentì. L’assedio era inconcludente, temeva che i suoi capitani ordissero piani alle sue spalle, vide nemici anche dove non ne aveva; inoltre si attirò l’odio della popolazione aquilana consentendo saccheggi, violenze e stupri sugli abitanti del contado, comportamenti che in precedenza non aveva tollerato: senza quasi rendersene conto, stava perdendo il controllo del suo esercito.
Infine, in maggio, giunse notizia che una nuova armata papale guidata dall’abruzzese Jacopo Caldora (che in gioventù era stato agli ordini di Braccio: dunque conosceva bene il suo “maestro”) si era messa in movimento e stava per raggiungere L’Aquila da Occidente, attraverso i valichi sulle montagne. Era numericamente quasi doppia rispetto a quella del signore di Perugia e comprendeva anche truppe della Regina di Napoli, di Milano e di Luigi d’Angiò.
La sera del 1° giugno Braccio decise di giocarsi ancora una volta il tutto per tutto. Ordinò che uno (e uno soltanto!) dei passi fosse lasciato sgombro per consentire agli uomini di Caldora di discendere nella pianura indisturbati e fece costruire dighe sui torrenti Ocre e Bazzano per allagare i campi e delimitare la pianura dove si sarebbe combattuto. Alcuni tra i suoi luogotenenti gli consigliarono di sfruttare la montagna a proprio vantaggio per tendere imboscate sugli aspri sentieri che i nemici avrebbero dovuto percorrere, ma Braccio rifiutò seccamente.
Sarebbe stato uno scontro leale, decise. Ignorava però che gli avversari non erano disposti a battersi altrettanto lealmente.
4.2 Battaglia. Il 2 giugno gli eserciti erano l’uno di fronte all’altro sulla pianura aquilana. Sulle mura della città si radunò una folla enorme di uomini, donne, vecchi e bambini pronta ad assistere al combattimento, impossibilitata però a prendervi parte perché il signore di Perugia aveva dispiegato quattrocento uomini agli ordini di Niccolò Piccinino affinché vigilassero sulle porte e impedissero agli Aquilani di accorrere in aiuto di Caldora.
Ritenendo di avere le spalle coperte, Braccio ordinò ai balestrieri di avanzare. La prima fase della battaglia fu convenzionale, e si risolse in un reciproco scambio di salve di quadrelle. Poi Braccio diede ordine alle sue squadre di avanzare. Erano ancora una volta costituite sia da fanti armati di picca che da cavalieri, e mentre i primi abbattevano i destrieri dell’esercito nemico, disarcionando gli uomini, i secondi ne travolgevano i ranghi. Lo stesso Braccio si batté personalmente, a cavallo e vorticando una mazza ferrata.
In breve le forze del condottiero perugino sospinsero gli avversari ai piedi delle montagne da cui erano discesi, in una posizione molto scomoda perché la montagna alle spalle e il terreno allagato ai fianchi impedivano a Caldora di ritirarsi. Seriamente minacciato, l’esercito pontificio si batté con vigore, ma Braccio aveva in serbo il colpo di grazia. Fece suonare le trombe per ordinare l’intervento della fanteria di Baglioni lasciata sui passi di montagna da cui non era disceso Caldora, così da stritolare in una morsa gli avversari.
Baglioni inspiegabilmente non si mosse.
In quelle fasi concitate forse non si accorse dell’ordine, o forse si era segretamente accordato con Caldora per restare fuori dalla mischia; in parte la colpa fu anche di Braccio che, sospettoso di tutti com’era in quel periodo, non lo aveva preventivamente messo al corrente del suo piano. La storia non ha mai dato risposta certa a ciò che accadde, fatto sta che il mancato intervento della fanteria fece fallire l’intera strategia di Braccio.
Per un certo tempo la mischia tra i due eserciti continuò incerta. Forse i Bracceschi avrebbero ugualmente potuto prevalere, ma a quel punto avvenne il secondo episodio sospetto di tradimento, allorquando le forze di Piccinino (cui Braccio aveva impartito ordine di non muoversi per nessun motivo dalle palizzate e dalle trincee che circondavano le porte cittadine), accorsero in aiuto del signore di Perugia.
Antonuccio Camponeschi, ispiratore della resistenza aquilana, ne approfittò per condurre migliaia di cittadini in una poderosa sortita che investì l’esercito di Braccio alle spalle. Secondo le cronache dell’epoca vi prese parte l’intera popolazione (che ammontava a 19.000 abitanti), ma verosimilmente coloro che parteciparono non furono più di 6.000, comprese donne e ragazzi. In ogni caso si trattava di una fiumana di persone male armate, spesso con soltanto bastoni, zappe o forconi, animata però da una collera feroce, inviperita dalle privazioni di un anno di guerra e dalle violenze perpetrate dai Bracceschi.
Per l’esercito perugino fu la rovina.
Gli Aquilani aggredirono gli uomini d’arme di Braccio e, sebbene non potessero facilmente ferirli a causa delle pesanti corazze, li colpirono alle gambe per sbilanciarli e farli cadere a terra, dove proprio a causa del peso sarebbero stati impossibilitati a rialzarsi, divenendo vulnerabili. È ipotizzabile che il corpo a corpo causasse gravi perdite agli Aquilani, ciononostante alla fine il numero prevalse e i Bracceschi, incalzati da ogni direzione, furono costretti a disperdersi. Alcuni si rifugiarono nei boschi circostanti, altri cercano aiuto presso i compagni rimasti in cima ai valichi, altri ancora cercarono di mettersi in salvo oltre i torrenti ai lati della pianura.
Braccio, circondato soltanto da un manipolo di guardie del corpo, tentò di guadare il torrente Ocre, ma fu raggiunto sull’argine e ferito alla testa da un colpo di mazza sferrato alle spalle, forse da un perugino di nome Vittore appartenente alla fazione dei Raspanti. Crollato al suolo e stordito, il Signore di Perugia sarebbe stato certamente massacrato sul posto, se i cavalieri di Caldora non lo avessero protetto e condotto da prigioniero nel padiglione del loro condottiero. Lì morì tre giorni più tardi, anch’egli, come Attendolo Sforza, vittima dell’attraversamento di un corso d’acqua. La profezia che lo legava al rivale non avrebbe potuto essere più precisa.
4.3 Conseguenze. Con la morte di Braccio svanirono anche tutti i suoi progetti politici. Il figlio Carlo era ancora un bambino, troppo giovane per raccoglierne l’ingombrante eredità, e Perugia passò di fatto nelle mani di Malatesta Baglioni, il quale si affrettò a dichiararsi vassallo del papa e a governare in suo nome.
Baglioni fu senza dubbio colui che più di tutti trasse vantaggio dalla caduta di Fortebracci, tuttavia se si trattò soltanto di opportunismo o di un vero e proprio tradimento (come lascerebbe pensare il mancato intervento in battaglia) è questione ancora dibattuta. I Baglioni detennero il potere per oltre un secolo, fino alla Guerra del Sale del 1540, in seguito alla quale Perugia fu duramente ricondotta entro l’orbita pontificia. Quanto a Niccolò Piccinino, venne preso prigioniero e liberato poco dopo. Anche in questo caso non si sa se abbia contravvenuto gli ordini di Braccio per il genuino desiderio di accorrere in suo soccorso (cosa che sostenne fino alla fine), oppure se abbia lasciato le porte de L’Aquila incustodite ben sapendo quello che sarebbe avvenuto.
Altro mistero è quello relativo alla morte del condottiero. Infatti non è mai stato chiarito con esattezza se morì a causa del trauma subito alla testa o se invece fu successivamente ucciso. Alcune ipotesi però fanno propendere per la seconda opzione. Infatti la ferita non sembrava così grave da causarne la morte, ma soprattutto un esame sul cranio di Fortebracci effettuato all’inizio del XX secolo ha rilevato un’anomala perforazione di forma perfettamente circolare all’altezza della tempia, compatibile con una versione circolata fin dai giorni successivi alla sua morte. Secondo questa “leggenda”, infatti, il chirurgo di Jacopo Caldora, impegnato nel ricucire la ferita all’interno di una tenda sovraffollata, fu involontariamente urtato da uno sconosciuto, cosicché uno dei suoi ferri si conficcò nel cervello del Signore di Perugia, causandone il decesso immediato.
Se non Caldora, che con ogni probabilità fu suo leale avversario, molti altri avevano interesse a sbarazzarsi definitivamente dello sconfitto. Giuseppe Milli, nella sua certosina opera “Andrea Braccio Fortebraccio” aggiunge che “il chirurgo era stato certamente reperito tra gente d’Abruzzo (…) quindi più propenso all’odio ed alla vendetta verso colui che tanto aveva afflitto la sua terra”.
Di certo Martino V uscì dal conflitto enormemente rafforzato. Braccio, morto scomunicato, fu sepolto in terra sconsacrata sotto una colonna di marmo (simbolo quanto mai eloquente, dato che il cognome del papa era proprio Colonna); solo alcuni anni più tardi il suo corpo venne ricondotto a Perugia e tumulato nella chiesa di San Francesco al Prato, dove riposa tuttora.

Capitolo 5: Braccio: sognatore e utopista
Con la morte del Signore di Perugia vennero meno le basi per realizzare il suo principale progetto politico: formare uno stato unitario nell’Italia Centrale con Perugia capitale, stato che inizialmente avrebbe dovuto inglobare Marche e Abruzzo (nell’unica direttrice possibile, vista la vicinanza di Firenze e di Roma), ma che in una tappa successiva avrebbe dovuto estendersi anche verso il Tirreno. Di certo il condottiero intravedeva e auspicava un barlume di unità per l’intera penisola.
La Storia ha decretato che il suo sogno svanisse, forse perché troppo utopico e prematuro per il XV secolo, però talvolta quelli che sembravano progetti destinati a naufragare si concretizzarono. Quello del Signore di Perugia non riuscì, e questo lo rende uno dei grandi sconfitti della storia: probabilmente per questo la sua figura stenta ad essere ricordata come meriterebbe.
Moderna e innovatrice anche la sua visione del Papato. Infatti Braccio riteneva che il capo della Chiesa avrebbe dovuto esercitare soltanto un ruolo spirituale, e non politico. I suoi detrattori dissero a questo proposito, e per secoli dopo la sua morte, che era un “senza Dio”, un “impio et heretico” secondo i “Diaria Neapolitana” del 1732; e ancora: “[Braccio]disprezzava le cerimonie ed officj ecclesiastici; non udiva mai Messa e fu crudelissimo”.
Marco Rufini, nella sua già citata bella biografia del condottiero, suggerisce che avesse invece una sincera devozione per la figura di San Francesco, che auspicasse una Chiesa più povera e vicina agli ultimi e che, in definitiva, anche nella sua visione religiosa fosse un innovatore decisamente scomodo e atipico per il secolo in cui visse.
Anche per questo il Signore di Perugia fu vittima dopo la morte di una vera e propria damnatio memoriae, come testimonia la quasi totale distruzione della Rocca di Braccio, a Montone, avvenuta negli anni immediatamente successivi agli eventi de L’Aquila e della quale oggi non restano che poche vestigia.
Ciononostante il suo nome ha attraversato i secoli. “Braccio .. che per tutto ancora, con maraviglia e con terror si noma” scrisse nel 1816 Alessandro Manzoni. Temuto o ammirato, amato o odiato, la sua figura è giunta sino a noi con immutato fascino. E basti citare il suo epitaffio per far capire l’aura di perenne leggenda che ancora oggi aleggia sul nome di quell’antico soldato, troppo sognatore e troppo innovatore: “Braccio qui è sepolto. Chiedi della sua origine e delle sue gesta? Udito il nome, se non sai d’ambedue, nulla sai”.

Nota bibliografica
Ascani, Angelo, Montone. La patria di Braccio Fortebracci, Città di Castello, s.e., 1965.
Baleoneus, Astur, I Baglioni – Condottieri e signori del Rinascimento italiano, Firenze, Leo S. Olschhki Casa Editrice, 1964.
Balestracci, Duccio, La festa in armi, Bari, Laterza, 2001.
Blair, Claude (a cura di), Enciclopedia ragionata delle armi, Milano, Mondadori, 1993.
Contamine, Philippe, La guerra nel Medioevo, Bologna, Il Mulino, 2014.
Flori, Jean, Cavalieri e Cavalleria nel Medioevo, Torino, Einaudi, 1999.
Gurrieri, Ottorino, Storia di Perugia dalle origini al 1860, Perugia, Edizioni Grafica, 1974.
Milli, Giuseppe, Andrea Braccio Fortebraccio – Conte di Montone, Perugia, s.e., 1979.
Newark, Tim (a cura di), Storia della guerra – uniformi, luoghi e protagonisti, Modena, Logos, 2010.
Rufini, Marco, Quasi Re – Le vicende di Fortebraccio capitano di ventura, Bologna, Minerva Edizioni, 2013.
Settia, A. Aldo, Rapine, assedi, battaglie. La guerra nel Medioevo, Bari, Laterza, 2009.

a cura di Matteo Bruno

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