Segnalazione dal blog: Vanthúku – Il risveglio del draghetto rosso di Burt O.Z. Wilson


Risentimento, egoismo, paura: la sorte alterata da forma umana a mostruosa, volta alla rinascita. Burt O.Z. Wilson presenta un fantasy senza scrupoli di eroi vigliacchi e predatori, dominato da sangue, acciaio, artigli e ossa spezzate, evocazioni di morte da polvere e roccia rossa.
Nessun abitante dell’Impero conosce Vanthúku: le terre rosse oltre le montagne est, un tempo dominate dai grandi draghi estinti e i giganti del Mhòrk, ora avvelenate dai negromanti e infestate dai draghetti.

Ma cosa succederebbe se i due mondi fossero costretti ad incontrarsi?

E mentre antiche leggende raccontano di un errante nell’Impero ovest, e di un popolo delle ombre all’estremo sud, le terre rosse cadono al dominio di un uomo e all’unicità di un essere. Nel risveglio di forze antiche, scontri e tradimenti verso la supremazia di Vanthúku, s’intrecciano ambiguità, solitudine e rabbia di un soldato ripudiato e una donna portatrice di magia pura; di un furbo negromante e una coraggiosa guerriera; trafficanti mossi dalla cupidigia e uomini bestia.

Qual è il vero nemico da combattere?

Un libro che si lascia leggere in fretta, un’esperienza quotidiana raccontata come non lo fosse. Un fantasy parallelo al nostro tempo, che vive l’odio della diversità come paura e i sentimenti come motore ad affrontare la vita. Un viaggio dai risvolti spesso crudeli, ma vivi.
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Breve descrizione di come è nato il romanzo:
Il romanzo nasce per rivelare la propria esperienza paranormale attraverso una metafora. Burt O.Z. Wilson scrive di evocazioni, negromanti, golem e draghi in un deserto rosso senza scrupoli, ma parla di sé.
Un collegamento con l’aldilà, la facoltà di ascoltare le anime, rinascere: nella sua prima pubblicazione Burt O.Z. Wilson racconta il suo paranormale. Cerca di spiegare come certe esperienze non siano lo stereotipo di un’attività onirica o creata da suggestione e fantasia, ma trascendentale: esperienza possibile a qualsiasi livello e persona, come intuizione e incontro nello spazio e nel tempo reali.
Quante volte, spesso senza volerlo, sentiamo di non essere soli mentre la nostra interiorità è allineata ad un preciso ricordo? E così la possibilità di osservare i segni delle anime è alla portata di tutti – anche se sottovalutata – spesso sotto ai nostri occhi. È il motivo che spinge Burt O.Z. Wilson a raccontare una storia incentrata su quella piccola parte umana spesso lasciata in ombra, meno razionale e spontanea, che molti hanno vergogna di mostrare.
Prende allora forma la figura dei negromanti, nella percezione comune definiti in negativo: praticanti di arti oscure e divinatori di morte. Ma esiste un equilibrio, e in quello il negromante diventa metafora: il flusso di coscienza, lasciato nell’oscurità, in basso, riemerge come personaggio che lotta per sopravvivere. Il negromante può evocare gli spiriti, dargli forma: l’artefice della rinascita.
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Biografia autore:
Burt O.Z. Wilson legge e scrive di Horror, fantasy, sci-fi, thriller, ma il sogno irrealizzabile è diventare poeta. Il rifiuto all’immobilità lo costringe a spostarsi e per questo, durante i suoi viaggi, prende appunti di luoghi e persone cercando di farli propri, li immerge nel mondo di fantasia che costruisce per sopravvivere. La natura è il suo habitat naturale: foreste verdi e fiumi dove scopre di sé; le città sono i posti dove impara a conoscere l’uomo: si ammala delle loro stesse abitudini, le ama ma cerca di sfuggirle.
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ESTRATTI:

Primo estratto (la fuga dei negromanti):
«A quale condanna dobbiamo legarci qui?» insisté il gigante.
«C’è un potere nascosto in alcuni uomini» rispose lei, «quelli che hanno attraversato le montagne prima di noi lo sapevano».
«Sono tutti morti».
Lei restò indifferente. «Non abbastanza. Non quanti ne sono morti a Vanthúku. Non quanti ne ha uccisi Moŋĸerós. Non quanti draghetti o mangiavermi ne uccideranno ancora».
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Secondo estratto (la morte di un negromante):
I negromanti s’inginocchiarono nell’attesa che il fuoco lo divorasse, in silenzio, come se la pace della morte non fosse dolorosa, ma al contrario, venerata. Una manciata di secondi ancora, il tempo per la fiamma di mutare dal giallo ad un debole rosso, spegnersi. Quello che rimase di Feihlàray era poca cenere grigia della sua stessa forma distesa. Le vesti, le carni, le ossa; tutto consumato.
Sèrygar si avvicinò alla cenere e riempì la sacca di cuoio. Era una quantità sufficiente a cospargere un altro corpo.
«Cosa avete fatto…» Hiulo riuscì a capire, ma non sapeva come.
«Voi non consumate i vostri morti?»
Il soldato scosse la testa. «Possiamo sotterrarli… e sì, bruciarli, ma non così».
Poca cenere rimasta si allontanò in piccoli mulinelli alzati da folate fredde, improvvise. Nella nuda pietra grigioscura non era rimasto alcun segno del fuoco. L’esistenza del giovane negromante cancellata per sempre dal mondo.
*

Terzo estratto (la solitudine del soldato):
Passi sordi sulla pietra, il freddo. Rumore dal respiro che trattiene il pianto, dal vento improvviso. Hiulo piegò gli occhi ad un’altra folata, si voltò al boschetto.
«Lontana…» sussurrò, «senza sapere come ritrovarti».
Il bacio aveva aperto la speranza di una vita priva di solitudine, non con una donna obbligata all’ordine di servirlo. Lei era al comando di quel gruppo, forse di un’intera città, ma aveva scelto di amarlo.
Cercò i suoi tre compagni, nulla. Non era stato un sogno. Come poteva? Pensarlo era da stupidi, e lui non lo era. “No, davvero”. La mano toccò la fronte, la sentì viscida. «Sangue di traditore…» bisbigliò, «e ne scorrerà ancora, certo che lo farà. E non potrò rivederla».

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