Segnalazione: Giuliano e Lorenzo. La primavera dei Medici di Adriana Assini

In libreria dalla metà di giugno
Giuliano e Lorenzo. La primavera dei Medici
di
Adriana Assini

(La storia di due fratelli, dello splendore di Firenze e di una indimenticabile stagione, nel Rinascimento italiano, finita nel sangue.)

Giuliano è il sole; Lorenzo è cielo, mare e terra. Sono giovani, colti, carismatici e ammirati entrambi quando diventano i principi di Firenze. All’altezza del nome che portano, trattano con successo sia gli affari privati che la cura della cosa pubblica, circondandosi di menti eccelse e rinomati artisti, tra i quali spicca il Botticelli. Ma presto, accanto a tanta luce, crescono le ombre. Spensierato e seducente, Giuliano resta in secondo piano nel governo ma primeggia nelle faccende care a Venere, finendo per invischiarsi in una pericolosa storia d’amore con una donna maritata, Simonetta Cattaneo Vespucci, la più bella tra le belle. Lorenzo, invece, pur rivelandosi un politico abile e prudente, compie alcuni passi falsi nell’insidiosa palude del potere, procurandosi temibili rivali tra i banchieri, segretamente spalleggiati dal papato e da alcuni signori d’altri Stati. Giorno dopo giorno, attorno agli invidiati fratelli Medici prendono forma e corpo oscure trame. A distanza di anni dal tramonto dei due astri, A distanza di anni dal tramonto dei due astri, nella città dell’Arno ormai in declino sarà Cosma, un giovane cultore d’arte, a ripercorrere per la sua amata Beatrice splendori e tenebre di quella irripetibile stagione.
Adriana Assini torna in libreria con un nuovo romanzo storico, scegliendo anche questa volta, personaggi maschili: Giuliano e Lorenzo dei Medici. Non trascurando mai il rigore storico dei fatti e dei personaggi, il registro narrativo usato da Adriana Assini in questo romanzo è diverso dai suoi precedenti, rendendolo originale nella narrazione. La storia dei due fratelli illustri è raccontata, a distanza di anni, da un giovane artista fiorentino alla sua amata ma inaccessibile Beatrice. Un angolo di visuale sulla storia dei Medici nuovo rispetto agli altri romanzi dello stesso argomento, più incentrato sul rapporto tra i due fratelli e la città sull’Arno, ormai in declino dopo gli splendori della potente famiglia Medici. Un romanzo che ancora una volta mette in risalto la maestria e l’indiscussa capacità narrativa di Adriana Assini.
Non si cancella l’orrore con qualche secchiata di acqua lustrale. Le pietre non giudicano, ma trattengono la memoria dei fatti di cui sono state spettatrici.

Adriana Assini torna in libreria con un nuovo romanzo storico, scegliendo anche questa volta, personaggi maschili: Giuliano e Lorenzo dei Medici. Non trascurando mai il rigore storico dei fatti e dei personaggi, il registro narrativo usato da Adriana Assini in questo romanzo è diverso dai suoi precedenti, rendendolo originale nella narrazione. La storia dei due fratelli illustri è raccontata, a distanza di anni, da un giovane artista fiorentino alla sua amata ma inaccessibile Beatrice. Un angolo di visuale sulla storia dei Medici nuovo rispetto agli altri romanzi dello stesso argomento, più incentrato sul rapporto tra i due fratelli e la città sull’Arno, ormai in declino dopo gli splendori della potente famiglia Medici. Un romanzo che ancora una volta mette in risalto la maestria e l’indiscussa capacità narrativa di Adriana Assini.

vi lasciamo un gustosissimo estratto

A Tina
La campana mezzana dell’Ognissanti aveva scandito tre rintocchi sordi. Segno che a tirare le cuoia era stato un uomo, giacché alle donne ne spettavano due soltanto. Il borgo costeggiato dall’Arno si animò, ma nel riserbo: dalle decine di botteghe, dove da secoli si tingeva e si tirava la lana, s’affacciarono sia i capi che i garzoni, volendo rendere fugace omaggio al trapassato, che abitava in via Nuova, lì a due passi.
L’esiguo corteo funebre avanzava senz’ordine e senza lacrime. Eppure, su quel comprensibile tacere pareva aleggiare una domanda: dov’era quel venerdì di maggio tutta la gente che a Firenze aveva voce in capitolo? Quali rimarchevoli faccende le avevano impedito di dare un ultimo saluto al defunto, che a quella città aveva dato gran lustro?
Nei pressi di un crocicchio, un signorotto su un corsiero, scortato da un famiglio, s’arrestò per dare la precedenza alla processione. Quando, nel togliersi la berretta di feltro, lo sconosciuto sbuffò d’impazienza, ecco che uno, in fondo alla fila, l’apostrofò con tono energico: «La fretta è di sovente vana, ma in certi casi diventa ad- dirittura sconveniente… Rallentate l’andatura, messere, ché solo la morte non aspetta». Chi parlava era Maso, nomato il Bardo, dal soprannome dato a un suo trisavolo che componeva versi.
Pentito del gesto indelicato, ser Giotto di Bicci Torregiani, detto il Saraceno per aver vissuto sulle rive del Bosforo, tentò di porvi testé rimedio chiedendo lumi sul morto.
«Una premessa è d’obbligo,» replicò l’interpellato «che l’assenza di ottimati, enfasi e orpelli non vi tragga in inganno». Tutto si sta- va, infatti, svolgendo secondo le volontà del deceduto, che aveva chiesto d’essere tumulato con la sobrietà con cui aveva campato più o meno nell’ultimo decennio. S’interruppe apposta, spassandosela nel tenere il suo interlocutore sulla corda, poscia gettò un sassolino nello stagno: «E dire che non stiamo discorrendo di un popolano qualunque.»
«Di chi si tratta, quindi?». «Alessandro Filipepi, che Iddio lo benedica!». Non cogliendo alcuna reazione sulla faccia ossuta dell’uomo, si sbrigò a precisare: «Il Botticelli». Ancora niente. Allora arricciò il naso: possibile che qualcuno ignorasse l’esistenza del divino pittore? «Lui è tornato alla madre terra, ma le sue opere risplenderanno nei secoli…». Come non provare un briciolo di diffidenza verso il commerciante dalla testa canuta e gli abiti sgargianti?
«Perdonate la mancanza. Il nome m’è familiare, però è trascorso così tanto tempo…». Pur essendo nato in loco, s’era trasferito presto a Trebisonda, giusto all’indomani della dipartita di Piero de’ Medici, detto il Gottoso. In quella terra remota affacciata sul Mar Nero, aveva accumulato un bel gruzzolo trafficando in tessuti, ma adesso era tornato in patria assieme a sua moglie per finirvi i suoi giorni.
Ora lo scoglio era di sentirsi come un forestiero in casa altrui, più o meno ignaro della storia di Firenze degli ultimi quarant’anni. «Ammetto che la vostra rivelazione sul Filipepi mi lascia a bocca aperta». Non aveva memoria di artefici che all’apice della carriera avessero rinnegato i trionfi per rifugiarsi nell’anonimato.
«In verità, fu una scelta tardiva e mai ripudiata». Maso spiegò che quanto stava andando in scena, sotto i loro occhi, era l’epilogo di un’esistenza luminosa sfociata in tormenti. «Per qualche lustro, l’oro zecchino impregnò le sue tele e riempì i suoi forzieri». Finché sull’alma regia ma inquieta del Botticelli non era calata l’Ombra, restandoci appiccicata come una mosca sul miele. «Per dirla in breve e con un’espressione non mia, prese nociva confidenza con il lato oscuro della vita… Disdetta vuole che il sottoscritto se la cavi a malapena col pennello e invece ci vorrebbe la finezza di un letterato per esporvi i fatti con lo zelo che meritano.»
«Se intendevate incuriosirmi, ci siete riuscito.» «Be’, mentre voi pascevate in terre forestiere, qui ne accadevano di cotte e di crude. Nel bene e nel male, vi siete perso pezzi irripetibili della nostra storia». Ma non era quello né il luogo né il momento per le ciarle. «Col vostro permesso, mi congedo» mugugnò il Bardo, proclive a ricongiungersi al corteo.
Senonché, il Saraceno lo inchiodò con un’irrifiutabile proposta: «Perché non provate a colmarle voi le mie lacune? Potremmo disquisirne con comodo al mio desco, una volta terminata la funzione». Promise di smussare l’amarezza di quella mattinata di cordoglio con prelibati arrosti e vini bianchi del Valdarno.
Il modesto dipintore di soggetti mariani sbalordì ma, ancorché onorato dall’offerta, si vide costretto a declinarla: «Avete appena invitato una lepre a correre!» scherzò, in un brodo di giuggiole. «Il guaio è che la borsa langue se si perde il tempo in ricordanze… Dovremo, perciò, riunirci in un dì festivo, quando l’ozio è concesso e non produce danno.»
«Deliberate voi quando più vi conviene.» «In assenza di inciampi, domenica prossima vi farò visita». Che non pretendesse, però, un ragguaglio sugli accadimenti uguale a quello che avrebbe potuto rintracciare negli Annali. «Vi illustrerò ogni episodio in conseguenza dell’idea che me ne feci allora, ovvero per la maniera in cui ciò che avvenne mi colpì i sensi e l’intelletto». Lui se ne intendeva di tutto e di niente, ma aveva un asso nella manica: più o meno per una stagione, era stato un garzone del Botticelli. E in seguito, non l’aveva mai perso di vista.
«Allora siamo a cavallo, messere!» esclamò il mercante. «All’ipocrisia altisonante di chi conta ho sempre preferito la cruda verità di chi sta in basso». Chi, se non gli stolidi, prestavano fede a quanto riportato nei documenti pubblici? Meri strumenti del potere, in quelle carte si celebrava la versione falsata dei vincitori, a uso dei contemporanei e dei posteri. Per converso, restava afona la voce dei vinti e dei poveri cristi.
Eccitato all’idea d’essere tosto accolto nell’intimità di una fami- glia agiata, il pittore chiese il permesso di menare con sé un amico: «Padroneggia sia il dritto che il rovescio di qualsiasi materia». Cosma Falconieri, un tipo sveglio, addentro sia ai fatti più remoti che a quelli più recenti, l’aveva preceduto in chiesa e di sicuro sarebbe stato allettato dalla proposta.
«Sarà il benvenuto» assicurò Giotto, dandogli appuntamento nella sua abitazione, presa a pigione nei pressi di piazza della Signoria.
Un saluto sbrigativo e via. Nel frattempo, all’Ognissanti, un francescano stava dando avvio alla messa. Dopo salmi, antifone, orazioni e aspersioni con l’acqua benedetta, i frati tumularono il feretro nel transetto destro della sua amata parrocchia. Un braccio sopra a lui riposava Simonetta Cattaneo in Vespucci, sua musa ispiratrice.
«Chissà che quei due non possano confidarsi qualche segreto!» auspicò quasi tra sé il Bardo, all’uscita dalla chiesa.
«Già…» gli fece eco Cosma, al suo fianco. «Sarebbero meno opprimenti le Tenebre se tra i suoi meandri fosse lecito il parlare delle cose illecite». Che almeno lì si dissolvessero i pudori e le paure che vessavano gli esseri umani. «Viene la nausea a riflettere sulla mutevolezza della sorte. Senza un avviso, altera i nostri piani e si fa beffa delle nostre più intime speranze, derubandoci di illusioni e desideri.»
«Così è stato, così è e così sarà». A siffatte riflessioni Maso c’era abituato, essendo sempre le stesse che affliggevano la gente quando tornava dai funerali. «Consoliamoci ché, alla fine della sfida, tanto va nel sacco il re quanto la pedina.»
«Sia come sia, il Maestro ha subìto un torto: gli è stato dato tanto per poi levargli tutto». Per il Falconieri, il destino riservato al Botticelli era stato infimo e crudele: dapprima in auge, beniamino dei mecenati e pupillo dei magnati, quindi ridotto alla fame e all’oblio. «Ormai era più spiantato lui di San Quintino, che chiamava messa coi tegoli». Dalle stelle alla polvere.
«Quando l’accompagnavo a rasarsi dal barbiere, non superavo tre spanne d’altezza». Nonostante questo, Maso ne serbava un vivido ricordo: era attraente con quei riccioli quasi biondi e gli occhi verdi come le olive. In illo tempore, nel suo tempio transitava il fior fiore del magnatizio cittadino, le commissioni s’accumulavano e lui, per soddisfarle, era obbligato a lavorare pure di notte, al lume di candela. «All’alba, si coricava per un paio d’ore». Con la zazzera appiccicosa e sporca per via delle colle e dei pigmenti.
Il suo declino, cagionato dalla morte del Magnifico, era peggiora- to con l’assalto del Savonarola alle coscienze fiorentine. A mano a mano che i clienti più facoltosi scemavano, il buon Sandro s’era immalinconito dietro ai sermoni del frate ferrarese: “Credete voi che Vergine Maria andasse vestita a questo modo come voi la dipingete?”. Così aveva finito per rinnegare le sue madonne abbigliate di seta e di bisso, e pure le pitture a carattere profano, bollate come moneta del demonio. Sicché, il martedì grasso del millequattrocentonovantasette, s’era precipitato a gettarle nel “falò della vanità” acceso in piazza della Signoria, dove altri non avevano esitato a bruciare parrucche, ermellini, tessuti pregiati e gioielli.
«Una follia nella follia» stigmatizzò Maso. «Non è con quei mezzi drastici che si dovrebbe combattere l’errore di cercare la felicità nelle cose fatue.»
Mettendo al bando la grazia e altre virtù tentatrici, fra Girolamo aveva rischiato di soffocare i migliori talenti della “Florentia felix” del Magnifico. «Che l’Altissimo lo perdoni, se può! Quanto a me, spero che arda infra le fiamme dell’inferno.»
«Eh sì, la fede è come la pioggia, che quando è moderata ristora la terra, ma se è in eccesso sciupa il raccolto». Il Bardo sottolineò come tanta brava gente fosse divenuta irremovibile e malvagia su istigazione del religioso, talmente ossessionato dal peccato da scorgerlo perfino nelle margherite che ornavano le capigliature delle adolescenti. «Per il nostro Sandro, che pure non era della stessa pasta, la sua influenza fu letale». Alieno alle violenze insite in talune idee, l’autore della Venere che nasce s’era appartato, divorato da mestizia, depressione e terrore del castigo celeste. Piuttosto che ribellarsi alla barbarie dilagante, aveva preferito farsi calpestare, attenuando via via la luce opalescente ch’era stata il vanto alle sue pitture. «D’altro canto, l’inclinazione alla tristezza gli era congenita». Ma d’una specie bislacca, analoga a quella degli aedi, che più sono profondi e più sono sconsolati. Col senno del poi, Maso comprendeva lo sconcerto del Filipepi padre nel rapportarsi a uno dal cervello stravagante come il suo ultimogenito. Come scordare, infatti, che il conciatore di pelli, di scarse pretese, s’era lagnato in più occasioni dell’irrequietezza di quel figliolo che non s’accontentava mai di nessuna scuola? Sandro passava ore e ore a leggere, interrogarsi, inseguire risposte, rimuginare sugli arcani dell’universo… Come se nulla bastasse mai a placare la sua insaziabile sete di conoscenza. Come se il mondo fosse troppo picciolo e imperfetto per reggere alla sofisticatezza dei suoi quesiti.
«Intendeva avvicinarsi ognora di più alla Sapienza dei migliori» integrò Cosma, di più solida istruzione. «Cosa seminava sulle tele? Gli indecifrabili frutti di quel suo costante meditare su temi alti, ma rendendoli impercettibili agli ignari…».
«Vale a dire?».

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