Il cimitero di Venezia di Matteo Strukul

La prima indagine di Giovanni Antonio Canal, detto il Canaletto
Venezia, 1725.

Mentre un’epidemia di vaiolo miete vittime tra la popolazione, una delle donne più illustri della città viene trovata con il petto squarciato nelle acque nere e gelide del Rio dei Mendicanti. In un clima di crescente tensione, Giovanni Antonio Canal, detto Canaletto, viene convocato dagli Inquisitori di Stato, insospettiti da una sua recente opera, che ritrae proprio quel luo­go malfamato: c’è forse un legame tra il pittore e l’omicidio? Mentre, sconvolto, sta lasciando il Palazzo Ducale, Canaletto viene fermato e portato al cospetto del doge, anche lui interessato a quel quadro, il Rio dei Mendicanti. Nel dipinto c’è qualcosa che, se rivelato, potrebbe mettere in grave imbarazzo un’importante famiglia veneziana: un nobile, ritratto in uno dei luoghi più popolari e plebei di Venezia. Perché mai si trovava in un posto simile? Canaletto riceve dal doge l’ordine di scoprirlo e riferire direttamente a lui. L’indagine – che all’inizio lo spaventa e poi, lentamente, lo cattura – lo porta però a frequentare ambienti apparentemente illustri in cui sembrano consumarsi oscuri riti, e nei quali si aggirano figure ambigue, dal passato avvolto nel mistero. Quali segreti si celano nei palazzi veneziani? Quali verità sarebbe meglio rimanessero sepolte?

  • Editore ‏ : ‎ Newton Compton Editori (2 maggio 2022)
  • Lingua ‏ : ‎ Italiano
  • Copertina rigida ‏ : ‎ 320 pagine

Recensione a cura di Claudia Pellegrini

Matteo Strukul torna a deliziarci con una nuova storia, un thriller storico ambientato nella Venezia del Settecento, che sposa perfettamente fiction a fatti realmente accaduti e personaggi storici, proiettandoci in un’epoca dal fascino indiscusso nella quale si è mosso un artista straordinario, Antonio Canal, meglio conosciuto come Canaletto, al quale ha affidato l’onere e l’onore di esserne il protagonista. 

Canaletto (Giovanni Antonio Canal 1697/1768) è stato il più celebre pittore del vedutismo, genere nato nel Settecento, che prevedeva la centralità di paesaggi e vedute realizzati con estrema accuratezza e realismo. Nelle sue vedute ha riprodotto la Serenissima del XVIII secolo e i suoi abitanti in maniera così reale tanto da darci l’illusione di guardare una fotografia e non una tela. 

Il Settecento non è stato un secolo felice per la repubblica marinara che si stava avviando verso un lento declino (che culminerà con la resa a Napoleone Bonaparte del 1797). Tuttavia in questo periodo si assiste ad un notevole aumento delle produzioni artistiche e, in un periodo in cui la politica tentava di far restare a galla certe obsolete istituzioni ad ogni costo opprimendo la vita cittadina, feste, gioco d’azzardo e divertimenti più o meno leciti presero inevitabilmente il sopravvento, trasformando la città lagunare in una sorta di Carnevale perenne che tuttavia nascondeva ben altro sotto la sua vezzosa moretta.

Antonio Canal, il nostro protagonista ha dipinto il Rio dei Mendicanti, un luogo squallido e malfamato, nel quale recentemente è stato rinvenuto il cadavere di una donna con il petto squarciato. La natura insolita del soggetto da lui immortalato sulla tela, luogo del ritrovamento di quella che viene battezzata “la fanciulla d’alabastro”, lo rende particolarmente sospetto agli occhi del Capitan Grando, Giovanni Morosini, Capo dei Signori di Notte, il quale lo avvisa che in futuro lo terrà d’occhio. È ovvio che si tratti di una tragica fatalità, oltretutto voci di popolo vogliono che dietro all’orrendo omicidio si nasconda la comunità ebraica veneziana. 

Ma questo non è l’unico dipinto di Antonio che suscita l’interesse della Serenissima, poiché il doge in persona, Alvise Moncenigo, convoca il pittore al Palazzo Ducale chiedendogli ragguagli su un’altra tela, una veduta della zona dell’Ospedale. Insieme al doge c’è una misteriosa donna mascherata, la quale sarebbe la moglie di uno dei tre uomini riprodotti mentre confabulano tra loro su questa tela. Canaletto afferma di aver visto quei tre figuri mascherati in più occasioni durante i suoi studi con la camera ottica, sempre allo stesso orario. Il doge esige che Antonio investighi per conto della Repubblica così da scoprire il motivo per cui quegli uomini si diano convegno proprio in quel luogo.

“Un pittore. Avevano ingaggiato un pittore. Era una scelta geniale e folle a un tempo”.

Il pittore, da bravo investigatore inizia a pedinare i sospetti e scopre che sono soliti entrare all’interno di un edificio di Calle Cavalli. Grazie alla conoscenza con uno dei suoi committenti, l’irlandese Owen McSwiney, non solo viene a conoscenza che in quel palazzo ha sede il salotto di una delle cortigiane più prestigiose di Venezia, Cornelia Zane, ma riesce anche ad ottenere un invito ad una delle sue esclusive feste.

“C’era qualcosa di indefinibile nel cosiddetto salotto di Cornelia Zane. Non avrebbe saputo descriverlo ma di certo non si trattava di un semplice luogo di gioco e piacere. Rimanendo alla festa aveva avuto la sensazione che un senso di depravazione aleggiasse, come se quanto aveva scoperto fosse soltanto il sipario di un teatro più perverso e delittuoso”.

Antonio è certo che il salotto di Cornelia Zane nasconda qualcosa di spaventoso ed inquietante al tempo stesso, almeno quanto il cicisbeo della cortigiana, tale Olaf Teufel, un personaggio misterioso che sembra avere in quel posto un ruolo più importante del dovuto, per questo motivo Owen McSwiney, che è assiduo frequentatore di Calle Cavalli, dovrà diventare gli occhi e le orecchie del pittore, così da poter carpire i segreti celati all’interno di quelle mura.

Intanto la comunità ebraica è in fermento poiché l’omicidio della fanciulla d’alabastro sta portando a galla l’odio sepolto sotto le acque della laguna che i veneziani hanno sempre nutrito nei confronti del popolo eletto:

“… quella faccenda di sangue rischiava realmente di rappresentare l’occasione per una guerra da parte dei veneziani contro una comunità da sempre mal sopportata, e che ormai da duecento anni veniva rinchiusa, alla mezzanotte, nel proprio recinto, come una mandria di animali”.

La situazione si complica tragicamente quando la chiesa di San Giacomo di Rialto, altro soggetto al quale Canaletto sta lavorando con l’ausilio di nuove lenti provenienti da una fornace di Murano nella quale lavora Charlotte, la figlia di un suo conoscente, il feldmaresciallo Johann Matthias von der Schulenburg, diviene la seconda scena di un crimine simile al precedente, un’altra donna rinvenuta cadavere con il petto squarciato:

“… era sempre più convinto che quei terrificanti omicidi, il gelo che spezzava Venezia in due, il diffondersi agghiacciante del vaiolo, l’odio per gli ebrei e la dilagante amoralità della città fossero tutte parti di un medesimo disegno d’orrore”.

I sospetti di Canaletto riguardo all’ambiguità di ciò che realmente accade alle feste di Cornelia Zane diventano realtà quando Owen McSwiney racconta di essere stato spettatore, proprio in quel posto, di uno strano rituale nel quale, rigorosamente bendato, è stato introdotto in un ambiente che sembrava un tempio pagano dove Olaf Teufel, vestito in maniera bizzarra e farneticando di fratellanza e legami indissolubili, sembrava svolgere una sorta di rituale occulto che, grazie alle competenze in materia di Joseph Smith (personaggio realmente esistito, console britannico a Venezia dal 1744 al 1760, mecenate di artisti, in particolare di Canaletto), può essere riconducibile senza ombra di dubbio ad una qualche loggia massonica.

La vicenda però prende una piega ancora più inquietante quando un giovane del ghetto viene improvvisamente aggredito da alcuni sgherri mascherati ed ucciso. Su di lui viene rinvenuto un medaglione appartenente ad una delle vittime, quindi per l’opinione pubblica il caso si conclude con un colpevole, quello giusto: un ebreo. Ma Canaletto sa bene che la realtà è un’altra, anche se al momento è ancora sfuggente, ma è convinto che vada ricercata all’interno del misterioso salotto di Cornelia Zane.

Quando poi sul cadavere del giovane ebreo viene rinvenuto un misterioso simbolo, la testa di un leone, simile a quelli che Owen McSwiney aveva intravisto durante la misteriosa cerimonia capeggiata da Olaf Teufel, presente peraltro anche sui corpi delle due giovani trovate cadavere, allora Canaletto non ha più dubbi. Quel disegno rappresenta Sekmet, la divinità egizia della distruzione, delle epidemie e dello sterminio, con la testa di leone e il corpo di donna: chi l’ha raffigurata nelle proprie sale vuole portare epidemia e distruzione a Venezia.

Non c’è un momento da perdere se si vuole salvare la Serenissima dal caos, e anche Charlotte, la quale sembra essere misteriosamente scomparsa e rischia di fare la fine delle altre due giovani donne. Ma chi si nasconde dietro questo diabolico disegno? Olaf Teufel? Sicuramente il cicisbeo è una delle colonne portanti della struttura che, però, si regge su solide fondamenta ben piantate nel cuore della Repubblica, che sanno bene come e quali fili muovere per generare il seme del terrore a Venezia:

“Il contagio. La paura è come un contagio. Comincia come una piccola fiamma, sufficiente ad accendere uno stoppino. Poi si propaga e, in breve, diventa un incendio”.

Sarà una visita notturna nell’inquietante cimitero di Sant’Ariano a svelare molti tra gli enigmi che ci hanno accompagnato durante la lettura.

Il Cimitero di Venezia è un thriller storico dai molti pregi. Innanzitutto possiede quello che, a mio parere, è il pregio tra i pregi, ovvero la scorrevolezza. La lettura procede spedita, senza interruzioni, punti morti, zone di eccessiva riflessione, portando il lettore alla meta in un tempo record, quasi senza neanche accorgersi che è arrivato alla parola FINE.

Altro vanto è l’ambientazione storico-geografica. La Venezia del 1700 si presta meglio di qualsiasi altro luogo allo svolgersi di una fiction, è un luogo che, come accennato in precedenza appare nel suo involucro al suo massimo splendore, ma nasconde un’anima tormentata, corrotta, malsana che mollemente si avvia verso il suo ultimo Carnevale. Un simile luogo non può non nascondere segreti dietro le sue maschere, non può non essere il posto perfetto per lo svolgimento di un thriller.

“… una città sull’acqua, unica al mondo, l’unica ancora pienamente cristallizzata nel passato, l’unica a rappresentare il sogno impossibile dell’uomo per il modo stesso in cui è stata concepita e costruita, incarna un ideale romantico al quale non riesco più a rinunciare”.

Altra nota di interesse è l’ombra della massoneria che aleggia su tutta la vicenda. Nonostante le origini di questo fenomeno siano state considerate per natura leggendarie o mitiche, è un dato di fatto che è proprio in questo secolo che iniziano a nascere le varie logge europee (La Gran Loggia di Londra del 24 giugno 1717 fu la prima, a seguire le altre in tutte le zone dell’impero britannico e nel resto d’Europa. In Italia la prima loggia fu fondata a Firenze nel 1731), dando vita alla moderna massoneria, quella a carattere speculativo. Riti segreti, patti di fratellanza, maschere che celano volti e simboli esoterici. Tutti ingredienti che si sposano perfettamente con un thriller.

E poi Antonio Canal, un artista straordinario che ci guida nei meandri della storia e tra le calli della città lagunare con eleganza e precisione, quasi stia dipingendo una delle sue tele, determinato non solo alla ricerca di giustizia per le vittime, ma soprattutto alla salvaguardia del luogo che ama, la sua Venezia.

In conclusione direi che Matteo Strukul con Il Cimitero di Venezia ha imitato alla perfezione la tecnica pittorica del suo protagonista, ci ha regalato una veduta veritiera seppur oscura della Serenissima del 1700, trasportandoci sulla laguna con gli occhi della mente.

“Non più la semplice veduta, il congelamento dell’istante attraverso la tela, piuttosto la riproduzione di una parte della città, trasfigurata in un gioco di prospettive e punti di vista, a celebrare la grandezza della Serenissima”. 

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