Le lupe di Pompei di Elodie Harper

Le lupe di Pompei sono Amara, Didone, Vittoria, Berenice, Cressa. Ma nessuna di loro si chiama davvero così. Questi sono i loro nomi da schiave, costrette alla prostituzione nel bordello cittadino dal cinico padrone Felicio. Nella Pompei antica, che procede ignara incontro al proprio destino, vivendo contrasti abissali tra ricchezza e miseria, uomini e donne, cittadini liberi e schiavi privi di qualunque diritto, le ragazze che abitano il postribolo tentano ogni giorno di sopravvivere alla brutalità delle loro notti. Qualcuna, come Amara, ricorda un passato di libertà ed è decisa a riconquistarlo con ogni mezzo; altre, al contrario, sono nate schiave e non hanno conosciuto un’esistenza diversa. Ma nonostante il dolore di ogni storia personale e la continua gara per procacciarsi clienti, denaro e pane, le lupe possono contare le une sulle altre, farsi custodi delle reciproche debolezze e paure, proteggersi a vicenda ogni volta che è possibile, senza perdere la capacità di cogliere minuscole gioie quotidiane, ma soprattutto senza perdere la speranza: le strade di Pompei sono piene di opportunità e perfino chi non ha più nulla può trovare un’occasione per rovesciare la sorte in suo favore. Con Le lupe di Pompei, primo capitolo di una trilogia imbastita sullo sfondo di una realtà lontana nel tempo ma brulicante di vita, Elodie Harper mette in scena un denso, avvincente racconto di resistenza umana e femminile, riuscendo a dar voce alle donne le cui storie sono rimaste ai margini della Storia.

  • Editore ‏ : ‎ Fazi (20 settembre 2022)
  • Lingua ‏ : ‎ Italiano
  • Copertina flessibile ‏ : ‎ 440 pagine

Recensione a cura di Alice Croce Ortega

Ed eccomi qui con un’altra recensione niente affatto facile, per un romanzo che in patria pare sia diventato un best seller e che quindi desta pur sempre grandi aspettative.

Tutto inizia alle terme: un gruppo di prostitute, schiave del loro protettore Felicio, si trovano lì per ragioni di lavoro; mentre cercano per quanto possibile di godersi il breve momento di piacere costituito dalla visita alle terme in attesa dei clienti, vengono all’improvviso brutalmente scacciate: a vantaggio delle schiave di un concorrente di Felicio, Simone… Così comincia una storia molto dura, di violenza quotidiana, di sopraffazione, ma anche di amicizia e solidarietà tra donne comunque costrette sempre ad essere in qualche misura egoiste, tanto è misera la loro situazione.

La protagonista, Amara, è figlia di un medico greco: in seguito alla morte del padre, la famiglia va in rovina e lei viene venduta prima come ancella e poi come schiava sessuale. È forse quella del gruppo che fatica di più a sopportare la sua condizione: infatti è colta, ha letto i classici della biblioteca paterna, suona la lira e grazie a queste sue abilità cerca fin da subito di salire almeno un po’ di livello; anche se il degrado e la miseria in cui è costretta a vivere non le danno molte speranze, tuttavia poco a poco riesce a mettere a frutto gli apprendimenti dell’infanzia e a vendere (sempre per conto del suo padrone, naturalmente) non solo il suo corpo ma anche la sua compagnia come musicista e intrattenitrice… Per le sue compagne nate schiave, invece, la speranza di riscatto sembra molto più esigua, tanto da finire spesso in tragedia.

Il romanzo secondo me parte un po’ in sordina, poi poco a poco si vivacizza e introduce elementi interessanti, anche se non mi ha convinta del tutto

È molto stimolante il fatto che l’autrice abbia scelto di ambientare il romanzo a Pompei, e più precisamente nell’unico lupanare che gli archeologi hanno identificato con certezza come tale, riconoscibile dalle descrizioni: uno degli edifici più visitati dai turisti del sito archeologico, molto vicino alle terme. Ne descrive le piccole stanze del piano terra con il letto in muratura, pensate appositamente per ottimizzare lo spazio, e quelle del primo piano, dove risiede Felicio con i suoi collaboratori e c’è anche la dispensa. Anche la città nel suo insieme è molto ben descritta, sembra proprio di vederla e scatena la voglia di andare a visitarla, come se fosse una città vera.

Il linguaggio invece è molto moderno e particolare, quasi come quello di un copione cinematografico: la cosa mi è risultata straniante, così come l’uso del tempo presente. Non so se vi sia mai capitato di vedere uno spettacolo teatrale in cui l’opera è stata scritta nel passato ma il regista sceglie di trasporre l’azione nel presente, con abiti e ambientazioni contemporanee: in realtà anche nel cinema esistono esempi di questo tipo, ad esempio “West Side Story”, ispirato alla vicenda di Romeo e Giulietta, oppure “Una commedia Sexy in una notte di mezza estate”… Qui invece è il contrario: l’ambientazione è classica, usi e costumi del tempo, sullo sfondo niente meno che Pompei poco prima dell’eruzione del Vesuvio del 79 d.C.: ma pensieri e linguaggio moderni, come in una tragedia contemporanea.

Un altro elemento straniante è l’assenza completa di Roma: non c’è una pattuglia di sorveglianza, non c’è un soldato, non c’è un uomo retto che viva secondo il «Mos Maiorum»… Pochissimi si salvano. Non so, siamo nell’epoca di Tito: Pompei era una città di una certa rilevanza sociale ed economica, nonché sede della flotta imperiale del Mar Tirreno, basata a Capo Miseno; mi sembra poco realistico anche il fatto che non ci sia alcun aspetto positivo, solo uomini stupidi o sfruttatori, dediti a qualunque tipo di vizio, cosa che risponde a una visione di Pompei davvero poco lusinghiera: è vero che il meretricio era legale e normalizzato come in tutto l’Impero, ma era una città fiorente in cui si svolgevano mille attività, non tutte sordide e abbiette.

Un punto forte del romanzo è invece il rapporto che si instaura tra le protagoniste: è difficile fare amicizia in circostanze così ardue, tra miseria, disuguaglianze, schiavitù che si sommano alla condizione femminile dell’epoca, di per sé già molto limitante; pensiamo anche al fatto che per lungo tempo le donne non ebbero neanche un nome: venivano chiamate con la versione al femminile del nome del genitore e un numero d’ordine per distinguersi dalle sorelle. Eppure in qualche modo le “Lupe” riescono ad essere solidali l’una con l’altra, a capirsi, a condividere almeno in parte i magri benefici del loro lavoro, a superare invidie, rancori, discriminazioni… a fare fronte comune accontentandosi di quel poco che è comunque meglio di niente. Ma a quale prezzo.

Concludendo, chi cerca il sapore dei classici non lo troverà qui, in un’opera che è stata scritta con la testa nel presente e pensando al presente: usando il passato come la metafora di una situazione estrema, a mio parere… Ho amato le descrizioni delle feste in cui le nostre protagonista partecipano come danzatrici e musiciste; sembra di veder rivivere davanti ai nostri occhi gli affreschi di Pompei, quelle magnifiche istantanee di vita che il tempo e la cenere hanno preservato per noi; ma anche quelle delle feste di strada, quelle in cui gli schiavi potevano, magari solo per un giorno, vivere come persone libere mischiandosi con i normali cittadini, uniti nella voglia di divertirsi. 

Infine ho amato anche il personaggio di Plinio il Vecchio, anche se mi sembra un po’ stiracchiato: ma in tutta quell’abiezione, lui e il vecchio schiavo di Rufo sono due fari, la speranza che un altro modo di essere uomini è possibile anche in questa Pompei così particolare.

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