Accabadoras: sacerdotesse della vita e della morte.

Articolo a cura di Lia Fiore Angy

“Nell’antichità, quando la natura non provvedeva a dare al moribondo una morte rapida e dolce, oppure non provvedeva a eliminare il vecchio o il nascituro gravemente impediti e socialmente inutili con una morte a tempo debito, interveniva la comunità, per mano di addetti.”

Così scrive Ugo Dessy, lasciando intuire come la morte nella società agropastorale sarda non fosse un evento lasciato completamente nelle mani della natura o di Dio, ma fosse in qualche modo controllato e gestito da persone esperte, da “sacerdotesse della morte”. L’ultimo atto della vita umana, come la nascita, avveniva nei pressi del focolare domestico perché si pensava che qui risiedessero gli spiriti protettori della casa, ai quali veniva affidata l’anima del moribondo, e tutto ciò che avveniva all’interno delle mura domestiche era di competenza esclusiva delle donne.

Ma chi erano queste donne che intervenivano per porre fine all’agonia dei moribondi, e che ruolo avevano all’interno della comunità?

L’accabadòra, chiamata dai familiari o dal diretto interessato, se ancora lucido, interveniva praticando una forma di “eutanasia” a chi era colpito da una prolungata agonia, per portare una bòna morte, ossia una morte necessaria ad alleviare le sofferenze del moribondo e dei suoi familiari. Si trattava di un atto di pietà, soprattutto in quei nuclei familiari nei quali occuparsi di una persona sofferente e inabile, significava aggravare ulteriormente le già precarie condizioni economiche. In un’economia di sussistenza, l’autosufficienza fisica era considerata essenziale.

Colei che aveva questo incarico era conosciuta come accabadòra o agabbadòra, a seconda dei vari dialetti. In alcuni paesi, invece, si utilizzava il termine pratica, in quanto spesso si trattava di una donna esperta del corpo umano che svolgeva non solo la funzione di mettere fine alle sofferenze dei malati terminali, ma anche di guaritrice e levatrice.

Come spiega lo studioso Alessandro Bucarelli in un suo saggio, vi è differenza tra il termine “finire” e il termine “uccidere”, tra il dire l’hat mortu e l’hat accabbadu. La prima espressione indica che è stata interrotta una vita, mentre la seconda indica che è stata interrotta una vita già irrimediabilmente compromessa. L’accabadòra, dunque, non uccideva una persona sana, ma affrettava la fine di chi era già in procinto di morire.

Secondo una testimonianza dello storico greco Timeo (356-260 a.C.), tra i sardi vi era, sin dai tempi antichi, la consuetudine di far precipitare dall’alto di una rupe le persone inabili e non più autosufficienti. A conferma di questa ipotesi, riscontriamo la presenza nel territorio sardo di rupi il cui nome rimanda proprio a tale pratica. Sembra molto probabile che la figura dell’accabadòra abbia avuto origine da questa antichissima consuetudine. 

Vediamo ora l’etimologia del termine “accabadòra”. Il verbo accabbàre, che deriva probabilmente dal catalano acabar, in sardo significa “terminare”, “finire”. Il canonico Giovanni Spano, nel suo Vocabolario Sardo-Italiano del 1851, tradusse il vocabolo accabadòras con il termine “ucciditrici/uccidenti”, facendo derivare il verbo accabbàre dal termine arabo-fenicio hakàb che significa, appunto, “porre fine”.

Alessandro Bucarelli formula un’ulteriore ipotesi riguardo all’origine di questo termine. Egli ritiene che la radice “acca” possa ricondurre ad Acca Laurentia, l’antica divinità latina, la Terra Madre che accoglieva gli uomini nel suo grembo dopo la morte.

In che modo l’accabadòra poneva fine alle sofferenze del moribondo?

Dalle testimonianze orali e letterarie si deduce che si trattava di un vero e proprio rituale, fatto di gesti particolari, di preghiere e formule. 

Gli strumenti e i metodi utilizzati erano numerosi e variavano a seconda delle competenze dell’accabadòra. Dalle testimonianze risulta che lo strumento più utilizzato fosse su juale, ossia il giogo dei buoi, un oggetto considerato sacro nel mondo agropastorale, e al quale si attribuivano funzioni apotropaiche e protettive. Su juale veniva posto sotto il letto del moribondo per proteggerlo dagli spiriti maligni.

Un altro strumento utilizzato era s’ossu sanadore, un osso appuntito che veniva conficcato nella nuca della persona agonizzante.

In altri casi, infine, l’ammalato veniva soffocato con un cuscino o con le mani, o si utilizzava del veleno. Alcune fonti fanno riferimento all’uso del mazzolu, una sorta di martello ricavato da un muro d’olivastro, di cui è possibile osservarne un esemplare al Museo Etnografico Galluras.

Diversi studiosi hanno smentito l’esistenza delle accabadòras in Sardegna, affermando che si tratta di creature fantastiche della tradizione popolare sarda.

Tuttavia, in diversi resoconti e diari di viaggio dei viaggiatori dell’Ottocento, tra i quali Alberto Della Marmora e William Henry Smith, si fa riferimento a questa figura e alla funzione da lei esercitata. Il motivo per cui, fino a non molto tempo fa, solo pochi fossero a conoscenza di tale pratica, è probabilmente dovuto al fatto che si trattava di pratiche segretissime e illegali. Questo atto di pietà non era esente dal marchio di peccato e dall’accusa di omicidio. L’accabadòra era considerata un punto di riferimento importante all’interno di ogni comunità, ma anche un’assassina, una donna crudele, una strìa (strega), verso la quale si provavano sentimenti ambivalenti e si aveva un atteggiamento di rispetto e di timore al contempo.

Molte testimonianze indirette provengono da uomini di chiesa come l’abate Antonio Bresciani, che ne parlò nel suo Dei costumi della Sardegna (1851), e il poeta-gesuita Bonaventura Licheri, che scrisse numerosi versi accusatori e di dura condanna contro le accabadòras, nei quali si fa riferimento anche agli strumenti da esse utilizzati, come su juale e s’ossu sanadore.

“Vanno intorno dando la morte a chi è ormai in fin di vita. Con le mani o col veleno il respiro viene subito stroncato dal male. Siano messi da parte il giogo e la soga, non li tocchi più la malvagia accabadòra, la diabolica mercante non stronchi l’agonia…”

“Sono figlie del terrore, quando usano s’ossu sanadore e sos juales…”

In epoca più recente diversi autori e persone anziane hanno riferito esperienze di accabadura, delle quali hanno sentito parlare o alle quali hanno assistito in prima persona.

Alcuni episodi non risalgono all’Ottocento, ma ad anni più recenti.

Vediamo alcune delle testimonianze raccolte da Pier Giacomo Pala nella sua Antologia della femina agabbadòra. 

“Babbo era in agonia già da dieci giorni ma non ce la faceva a spirare. Un giorno entrò una vicina, si sedette in cucina insieme a me e disse: – La sta tirando per le lunghe, vero? Se vuoi ci penso io dirlo a una persona che può darti una mano-. Uscì ed in breve ritornò assieme a… [nome dell’accabadòra]. Questa salutò ed entrò subito dove stava babbo, chiudendosi la porta dietro le spalle. Dopo un paio di minuti uscì. Muta era arrivata e muta se ne era andata.”

“Nel marzo 2003, mi sono trovato a sostituire il parroco di un paesino del centro Sardegna […]. Nel confessionale una donna di circa 80-85 anni […]. Mi ha detto: “sono una che aiuta a morire […]. L’ultimo mio intervento è stato qualche mese fa. Era un uomo malato di cancro. Ho chiuso naso e bocca con una mano ma prima ho recitato una preghiera.”

“Da medico condotto in un paese della Gallura nel dopoguerra mi portarono un giovane malato di tubercolosi. Non riusciva a respirare e io non potevo fare più nulla. Era uno strazio vederlo annaspare a quella fame d’aria. I parenti mi congedarono, dicendo: – Non si preoccupi dottore: ci pensiamo noi. – Ho saputo che poco dopo chiamarono un’accabadòra.”

Una figura a cavallo tra storia e leggenda quella dell’accabadòra, a lungo caduta nell’oblìo e riportata alla luce grazie a un romanzo di successo scritto da Michela Murgia. Ancora oggi, in tanti preferiscono negarne l’esistenza, forse perché si tratta pur sempre di una pratica illegale, ritenuta incivile e sacrilega, o perché l’idea che una donna possa avere il potere di dare non solo la vita, ma anche la morte, fa paura.

La studiosa Dolores Turchi ha parlato di un vero e proprio Sciamanesimo al femminile in Sardegna.

Nella società agropastorale sarda, le donne erano considerate un po’ janas (fate) e un po’ strìas (streghe), delle quali la comunità non poteva fare a meno nei momenti cruciali dell’esistenza, come la nascita, la malattia e la morte. Ad esse veniva riconosciuto il ruolo di sacerdotesse della vita e della morte.

Il doppio ruolo della donna, custode della vita ma anche della morte, è rappresentato anche da una maschera tradizionale del Carnevale sardo. Si tratta della maschera barbaricina della Filonzana, una figura femminile vestita di nero, con il volto coperto da una maschera, che tiene in mano un fuso con il quale fila la lana. Secondo alcuni studiosi rappresenterebbe la donna nel ruolo di levadora (levatrice), quando è intenta a filare, e accabadòra, quando taglia il filo.

Bibliografia

▪️Bucarelli Alessandro, Lubrano Carlo, Eutanasia ante litteram in Sardegna. Sa femina accabadòra, ed. Scuola Sarda, Cagliari 2003

▪️Dessy Ugo, Su tempus chi Passat. Il tempo che passa. Artis e fainas. Mestieri e attività, ed. Alfa, Quartu S. Elena, 1999

▪️Fresi Franco, La Sardegna dei misteri, Newton Compton, Roma, 2010

▪️Pala Pier Giacomo, Antologia della femina agabbadòra, Grafidea s.r.l., Perfugas, 2010

▪️Turchi Dolores, Ho visto agire s’accabadora, Iris, Oliena, 2008

▪️ Turchi Dolores, Lo sciamanesimo in Sardegna, Newton Compton, Roma, 2001

Romanzi consigliati

📖 Murgia Michela, Accabadora, Einaudi, Torino, 2009

📖 Murineddu Giovanni, L’agabbadora. La morte invocata, Il Filo, Roma, 2007

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