Cimiteri abbandonati – di Maggy Bettolla (Autore), Andrea Lobbia (Autore), F. Ghiozzi (Illustratore)

Recensione a cura di Giorgia Anella

Il libro si presenta esteticamente molto bene: scritto in maniera chiara, privo di errori o refusi, ma sopratutto ricco di splendide immagini, ossia fotografie a colori scattate direttamente da uno dei due Maggy Bettolla. Scelta che poi ho molto apprezzato, sono dei bellissimi disegni a corredo del libro, appositamente realizzati da una loro amica artista, Frida Ghiozzi, che rendono il tutto impreziosito da quel tocco in più, aggiungendo allo sfogliare delle pagine un certo fascino. (foto 1 -Piemonte)
In questo primo volume, vengono descritti i più caratteristici cimiteri abbandonati e caduti in disuso nelle regioni del Piemonte, Lombardia e Liguria. Ma non solo, in aggiunta, ben scanditi all’interno del libro, vengono proposti al lettore vari ed interessanti approfondimenti, che trattano curiosità, ai più sconosciuti, legati al mondo e al culto dei morti. Solo per invogliare la curiosità, vi scrivo i titoli: “Il matrimonio fantasma”, “Gli ospedali per i morti” (Andrea Lobbia), “Il putridarium”, “Gioielli da lutto”, “Fotografia Post Mortem”; “La riesumazione della religione malgascia”, e “L’endocannibalismo”, tutti a cura dell’altra autrice Maggy Bettolla.
Certamente non è un libro che incontra il gusto di tutti, molti trovano l’argomento cupo ed inquietante, ma per molti, me compresa (non è infatti un caso che questo scritto sia capitato fra le mie mani), è di estremo interesse.
Fin da bambina ho sempre amato passeggiare per cimiteri, ogni volta che varcavo il cancello di entrata, avevo la sensazione di entrare in un altro mondo, fatto di pace e tranquillità, ma sopratutto ero sopraffatta dalla curiosità di poter leggere più tombe possibili e vedere tramite le foto i volti di cui quelle iscrizioni parlavano.
L’esaustiva prefazione del libro, si ricollega proprio ad una domanda che spesso io per prima mi sono posta “perché mi piace visitare i cimiteri?”. Sorprendentemente scopro che questo è un fenomeno in crescita, i cimiteri oggi vengono fotografati, descritti, si organizzano visite guidate, la lettura di poesie e perfino eventi danzanti o picnic.
Le persone sono forse impazzite? No, semplicemente tutto questo è solo l’espressione di una nuova curiosità nei confronti della morte.
Gli umani non sono capaci di comprendere la portata della parola “infinito”, così la morte ci pone in una posizione di crisi profonda e l’unica possibilità che ci rimane per cercare di capirla è attraverso quella degli altri.
Così i cimiteri sono la nuova meta dei FU-TURISTI, che nelle più belle città del mondo come Parigi, non si recano più solo per ammirare le bellezze del Louvre o della Torre Eiffel, ma anche per il Père-Lachaise; oppure la nostra Genova, per alcuni, non è oramai soltanto il Porto Antico o il Palazzo Ducale, ma anche Staglieno. In questi luoghi “morti” e come nel caso specifico pure abbandonati, si ritrovano non solo la storia, ma anche la sensibilità estetica di varie epoche: si pensi alle tombe dei ceti più abbienti che spesso sono delle vere e proprie opere d’arte.
Ma quello che attrae maggiormente nei cimiteri, sono le storie delle persone e non a caso ci si sofferma sempre su quelle tombe che recano più informazioni e immagini possibili.
Nei cimiteri abbandonati poi si assiste ad un doppio lutto: quello della perdita delle persone e quella del luogo ad esse destinato.
D’altronde capita spesso di abbandonare case, fabbriche, piscine, parchi ecc. e così accade anche per i cimiteri, quando l’ultimo parente dei defunti anch’esso si estingue.
Purtroppo, anche se rimane tanta amarezza, il meccanismo cinico del mondo si fonda appunto sull’estinzione e sulla perdita.
Attraverso i secoli il momento della dipartita è stato trattato come occasione sociale o privato in base ai culti e ai rituali applicati, ma un momento fondamentale per le nostre usanze e consuetudini riguardanti la morte è avvenuto il 5 settembre del 1806, quando con l’avvento napoleonico, nel Regno d’Italia, entrava in vigore l’Editto di Saint Cloud del 2 giugno 1804.
Questo soppiantava le vetuste usanze funebri che vedevano seppellire i propri morti all’interno del centro abitato o spesso e volentieri all’interno delle chiese, contribuendo notevolmente alla creazione di luoghi insalubri e maleodoranti.
L’editto invertiva così tale rotta, specificando che le sepolture da quel momento in poi dovevano avvenire fuori dall’abitato, in luoghi soleggiati ed arieggiati. Tra l’altro le lapidi dovevano essere tutte uguali, tranne nel caso di morti illustri.
Per fortuna, con la caduta dell’Impero napoleonico, quest’ultima parte venne presto ignorata, tornando alle sepolture singole.
Ogni cimitero descritto in questo libro è corredato inizialmente da informazioni tecniche molto utili (foto 2) e tutti sono di interesse storico, spesso fecondi di curiosità, leggende e misteri.
Non potrò citarli tutti, ma almeno un paio, a mio avviso, vorrei porli all’attenzione di altri appassionati come me.
Un esempio è il cimitero di Saletta di Costanzana in provincia di Vercelli, non un paese fantasma vero e proprio, ma un luogo ricco di antiche strutture dove leggende e macabre storie si intrecciano alla realtà dei fatti.
La storia di Saletta di Costanzana inizia ufficialmente nel Medioevo, ma alcune notizie fanno presupporre che fosse abitato già in epoche remote. Nel libro della Genesi (VI, 4), è scritto che prima del diluvio universale la terra fosse abitata da giganti, e lo storico vercellese Giovan Battista Modena, vissuto tra il XVI e XVII secolo, raccontò di aver trovato in zone limitrofe a Saletta, delle ossa di giganti.
Esattamente nel 1622 avvenne il ritrovamento di uno scheletro di enormi dimensioni e inoltre si diceva che le ossa fossero così antiche da essere diventate simili alla pietra.
Ovviamente questa storia non ha reali fondamenti storici, ma è stato accertato nella zona un antico ghiacciaio, e inoltre sulle colline del Monferrato è possibile ritrovare fossili di conchiglie.
Per la prima volta Saletta di Costanzana, il cui nome è di origine longobarda, viene menzionata nel 1148 d. C. e successivamente in un diploma di Federico Barbarossa del 1152. La sua storia continua di famiglia in famiglia fino ad arrivare nelle mani di Giuseppe Pallavicini Mossi, concepito da una relazione clandestina tra un arcivescovo (Mossi) e una Pallavicini.
Il bambino fu messo in un orfanotrofio e all’età di quindici anni, mentre era intento a raccogliere ciliegie da un albero, gli fu dato un lieto annuncio: per diritto ereditario era diventato proprietario di una vasta tenuta, ovvero Saletta di Costanzana.
Il ragazzo, sprezzante della vita e del lascito, pronunciò questa frase: “Era meglio che fossi morto quando ero nato”.
Una zingara udì quelle parole e predisse l’estinzione della stirpe Pallavicini Mossi nel giro di quattro generazioni, cosa che effettivamente avvenne. All’interno della chiesa e del piccolo cimitero, le persone del luogo raccontano di eventi alquanto raccapriccianti, perché prima che il luogo fosse sprangato, la zona era periodicamente teatro di messe nere e riti demoniaci: si pensa che la chiesa fosse divenuta il ritrovo di culto di una setta religiosa specifica, che adorava la statua di un toro o capro con gli occhi rossi conservata proprio all’interno della struttura. Nei pressi di questo luogo non solo si trova un castello risalente al 1272, ma un tempietto chiamato anche tabernacolo di San Sebastiano. La sua costruzione viene fatta risalire al suicidio di due amanti che decisero di vivere il loro amore nel solo modo possibile, ossia dopo la morte.
La leggenda narra di una giovane fanciulla appartenente alla famiglia Mossi che ebbe la sventura di innamorarsi di un cavaliere del vicino paese del Torrione. La famiglia di lei non accettò l’unione dei due amanti, ostacolandola in ogni modo possibile, tanto che i due ragazzi, spinti dalla disperazione, decisero di uccidersi.
Una notte di maggio, si avventurarono nell’umida campagna fino ad arrivare al punto dove oggi sorge il tempietto e lì si tolsero la vita.
Il Monsignor Mossi, sconvolto da tale accaduto, decise di far erigere proprio in quel luogo il tabernacolo di San Sebastiano.
In molti hanno raccontato di aver visto gli spiriti dei due amanti, apparire nelle notti di maggio e passeggiare nei pressi della costruzione, finalmente liberi di vivere felicemente il loro amore.
Altro cimitero molto caratteristico è sicuramente il cimitero vecchio di Triora in provincia di Imperia, luogo meglio conosciuto per la spietata caccia alle streghe, che una frase pronunciata nel lontano settembre del 1588 da una delle povere martiri inquisite per il reato di stregoneria, tale Franchetta Borelli, meglio riassume di una intera lezione di storia: “Fatemi bruciare, che quanto a me la verità l’ho detta. Fatemi levare da qui che non ci posso più stare. Non fatemi più disperare. Prendete una mazza e datemela sulla testa. Levatemi dagli affanni. La verità l’ho detta. Vergine Maria, fatemi slegare e fatemi fare un po’ di aiuto…io stringo i denti, e poi diranno che rido”.
Così come il piccolo borgo, anche il cimitero vecchio del paese è una perla di rara bellezza, dove la storia penetrata nelle fessure dei muri e del terreno si respira a pieni polmoni. Il camposanto, cinto da alte mura e posto su un’altura a guardia del paese sottostante, già racconta molto del suo ruolo nel passato.
Partendo dal principio, i defunti di Triora venivano seppelliti nei sotterranei della chiesa della Collegiata di San Francesco e di San Pietro, successivamente all’editto di Saint Cloud, dal 1806, i trioresi scelsero come luogo di riposo un tratto di strada rinominato “Trunchettu”, limitrofo all’antica chiesa, ma sufficientemente distante dal paese così da poter rispettare l’editto napoleonico.
Nel “Trunchettu”, i trioresi erano soliti svolgere, sin dal XIV secolo, le esecuzioni capitali e con la conversione del luogo in cimitero, sorse l’esigenza di trovare un altro luogo dove compiere le impiccagioni. Fu così che “il fortino”, divenne il luogo prescelto per tale attività punitiva. Divenne poi una struttura bellica e infine nel 1865 un cimitero, per poi trent’anni dopo essere ampliato: a testimonianza della vecchia funzione del luogo rimane sotto la struttura dell’ossario, e invece posta al centro del cimitero, la vecchia cisterna per l’approvvigionamento idrico del forte. Si leggono decine di date, decine di storie in questo luogo che ci fa ripercorrere a ritroso la storia, una storia spesso orribile, irrispettosa e nefasta. Ma questi cimiteri sono un’ istantanea perenne del passaggio di uomini, donne e bambini, che se per poco o per molto hanno poggiato i piedi su questa terra, lasciando a noi vivi la speranza un giorno di non venire totalmente dimenticati.
Questo libro mi ha lasciato molto ed è indubbio che ne consiglio vivamente la lettura a coloro che come me, trovano questi luoghi non un punto di arrivo, ma di partenza. I giovani autori sono stati bravissimi a creare un percorso notevole che porta in luoghi dimenticati da Dio, ma evidentemente non del tutto. Si nota con piacere che ognuno ha messo del suo e che unendo le forze, ma sopratutto la passione, si è creato qualcosa di insolito, ma proprio per questo più apprezzabile.
Lascio il tutto con una frase di Percy Bysshe Shelley che si trova all’interno del libro.
“Il cimitero è uno spazio aperto tra le rovine, ammantato d’inverno di violette e margherite. Potrebbe far innamorare qualcuno della morte, pensare di essere seppelliti in un posto così dolce”.

Link d’acquisto: QUI 

Copertina flessibile: 296 pagine
Editore: Autopubblicato (1 marzo 2018)
Lingua: Italiano
ISBN-13: 979-1220030526
ASIN: B07BF5TBND
Peso di spedizione: 499 g

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