Un altro Eden – Paul Harding

Dalla fine del Settecento fino al 1912, l’isola di Malaga accolse una comunità di pescatori composta da afroamericani, bianchi poveri e altre etnie che avevano trovato rifugio su quel lembo di terra nel Golfo del Maine. Nel 1912, il governatore dello Stato decretò «lo sgombero dei quarantasette residenti e la traslazione delle salme dei loro defunti». Un atto che sancí con efferata violenza la fine di quella comunità. In Un altro Eden, con la grazia della sua impeccabile scrittura, Paul Harding ritorna su quella vicenda crudele per narrare una magnifica storia «fatta di poesia e luce solare», come ha scritto il New York Times.
Il romanzo si apre nel 1793 con l’arrivo ad Apple Island – cosí l’isola viene ribattezzata nella finzione letteraria – di Benjamin Honey, nero nato in schiavitú, e di sua moglie Patience, irlandese di Galway. Aspirante frut-ticultore, Benjamin Honey sbarca sull’isola con dodici sacchetti di iuta contenenti semi di diverse varietà di mele e, con ostinata pazienza, riesce a creare il suo piccolo Eden: un frutteto di trentadue meli. Piú di un secolo dopo, nel 1911, una mancia¬ta di esseri umani vive sull’isola: i discendenti di Benjamin e Patience Honey, innanzi tutto, Esther Honey e suo figlio Eha, i figli di Eha; le sorelle McDermott, che passano le giornate a lavare i panni e ad accudire tre orfani; i fratellastri Lark, abili pescatori dai capelli e dagli occhi incolori, ereditati da padri africani, mamme irlandesi e nonni svedesi, e i loro quattro figli, vaganti per l’isola come spettri gentili e affamati; la vecchia Annie Parker e Zachary Hand to God Proverbs che vive in un albero cavo.
Gli abitanti di Apple Island conducono un’esi¬stenza semplice e povera nel loro piccolo Eden, in cui ciascuno è libero di prendersi cura delle proprie ore e dei propri giorni. Ignorano, dunque, che qualcun altro possa decidere del loro tempo e decretarne addirittura la fine. Ignorano anche i tormenti di Matthew Diamond, il missionario bianco che ogni mattina rema fino all’isola per predicare e insegnare tutto lo scibile ai bambini. Fermamente convinto che ogni uomo è suo fratello, Matthew Diamond non può, tuttavia, fare a meno di provare un istintivo e viscerale senso di repulsione ogni volta che si trova, come afferma con candore in una lettera, «alla presenza di un negro». Angustiato dal senso di colpa, si rivela non soltanto impotente dinanzi alla distruzione della piccola comunità di Apple Island, decretata dai deliri eugenetici e razzisti dell’epoca, ma anche incapace di scorgere in quel lembo di terra un’antica verità della sua fede: che l’Eden è dei poveri e dei semplici.

  • Editore ‏ : ‎ Neri Pozza (28 marzo 2023)
  • Lingua ‏ : ‎ Italiano
  • Copertina flessibile ‏ : ‎ 224 pagine

Recensione a cura di Lia Fiore Angy

Isola di Malaga, 1793. Benjamin Honey è nato schiavo, ma è riuscito ad affrancarsi o a fuggire, ed è arrivato sull’isola insieme a sua moglie Patience. Ha con sé una borsa degli attrezzi e una cassa con dentro dodici sacchetti di iuta. I sacchetti contengono semi di diverse varietà di mele e serviranno a Benjamin per provare a realizzare il suo sogno: costruire il suo Eden.

“Ricordava di essere stato in un frutteto da bambino, ma non dove o quando [···] e ricordava la fragranza degli alberi e dei frutti. Il ricordo era diventato una visione del giardino dove voleva tornare. L’Eden si capisce.”

1911. In quella parte di isola denominata Apple Island, un tempo abitata da Benjamin e Patience, ora vivono Ester Honey, la loro pronipote, con suo figlio Eha, e i suoi nipoti Ethan, che ha una passione per il disegno, Charlotte e Tabitha. Vicino a loro vivono altre persone, tra le quali la famiglia Lark, la vecchia Annie Parker, le sorelle Violet e Iris Mcdermott, e Zachary Hand to God Proverbs.

 È una piccola comunità di persone di etnia mista, con antenati africani ed europei, che convivono pacificamente e serenamente, nonostante la fame, la miseria, e l’assenza di condizioni igienico-sanitarie adeguate. 

L’arrivo del missionario Matthew Diamond, nonostante le sue buone intenzioni e i suoi modi pacati e gentili, fa subito scattare un campanello d’allarme nella testa di Esther. 

“Nell’apprendere che questo signor Diamond avrebbe trascorso l’intera estate con loro, aveva pensato che nel giro di cinque anni non sarebbe rimasta anima viva sull’isola. Credeva, e tutte le storie che aveva sentito raccontare dai vecchi isolani lo confermavano, che non  convenisse essere notati da quelli del continente, ovvero dai bianchi – i bianchi bianchi, come li chiamavano sua madre e le sue zie e le sue cugine. Attenta, le era parso di sentir dire da sua madre e dalle sue zie, nel tono sussurrato che le orecchie dei continentali non sapevano cogliere. Tienilo d’occhio. Piú si adopererà per fare del bene, piú attirerà l’attenzione, e questa non è una buona cosa.”

Nel frattempo, a Londra si è aperto il primo congresso internazionale di eugenetica. Sono veramente assurde le teorie esposte in quell’occasione, tra le quali quelle di Leonard Darwin, figlio di Charles Darwin. I pensieri più assurdi e pericolosi, purtroppo, come ci insegnano altre terribili pagine di storia, a volte, sono quelli che raccolgono un maggiore consenso e sostegno. 

“il maggiore Leonard Darwin, figlio del celebre Charles Darwin, ha messo in guardia dalle insidie derivanti da ogni interferenza con le leggi della Natura. Ha affermato che è giunto il momento di dire a voce alta che concedersi la soddisfazione di soccorrere il prossimo in difficoltà, senza tenere conto delle conseguenze che quel gesto caritatevole potrebbe avere sulle generazioni future, è stato a dir poco sciocco e insensato. Noi che viviamo a Foxden e dintorni faremmo bene a riflettere sulle sagge parole del dottor Darwin, davanti alla banda dei «bambini problematici» della Natura che scorrazzano davanti alle nostre coste, su Apple Island.”

Per la piccola comunità di Apple Island è l’inizio di un incubo. Hanno la colpa di aver violato quei tabù sui quali ogni società civile si regge, di non conoscere il telefono e la macchina a vapore. Ogni parte del loro corpo viene osservata e misurata; vengono studiati e fotografati come se fossero cavie o fenomeni da baraccone. I giornali parlano di questi “strani occupanti abusivi”, definendoli “depravati”, “idioti”, “anime perdute”, un “obbrobrio” che non può più essere tollerato. Il missionario Diamond riuscirà a mettere in salvo soltanto Ethan, che ha la fortuna di sembrare un bianco, ma di lui poi si perderanno le tracce. Resteranno soltanto i suoi disegni e le sue foto, che insieme a quarantamila oggetti d’uso quotidiano rinvenuti nell’isola, attestano l’esistenza di questa piccola comunità vittima di un’enorme ingiustizia.

Due giorni dopo giunse sull’isola l’uomo mandato dal municipio a notificare l’avviso di sfratto agli isolani. Si chiamava Timothy Whitcomb e gli seccava tremendamente che toccasse proprio a lui consegnare i documenti ai depravati che occupavano abusivamente Apple Island. Pensava che l’isola fosse come gli scogli della baia, piena di gabbiani che facevano il nido nel loro stesso guano, solo che quella era piena di gente sudicia.”

La vita di Eha e le vite di tutta la gente dell’isola e tutte le cose che hanno fatto e gustato e sofferto fino quasi a morire di fame e tutti i pleniluni e i giorni di sole e l’erba verde e i cieli azzurri [···] iniziano a scaturire al rallentatore dal buio infinitamente denso che nella mente di Eha è il senso di quello sfratto, che sulle prime il suo cervello non è riuscito a penetrare ma che ora si è squarciato e trabocca mentre Eha guarda la sua casa e i ricordi affiorano [···]. Comprende fino in fondo che la casa che ha di fronte, la casa da cui lui e sua madre e le sue figlie stanno per essere cacciati e che una volta vuota verrà data alle fiamme e diventerà un quadrato di cenere.”

Non ci fu nessuna pietà per gli abitanti di Apple Island. Nel 1912 lo Stato del Maine decretò il loro sgombero.

Alcuni di loro, colpevoli di aver violato il tabù dell’incesto, furono rinchiusi in un manicomio, insieme ai loro figli, e dai registri emerge che sei mesi dopo il ricovero, soltanto uno di loro era ancora in vita. Non sappiamo quali orrori subirono, possiamo solo immaginarlo…  

Non ci fu rispetto nemmeno per i morti sepolti nell’isola, le cui salme furono traslate.

Non posso dire che il romanzo mi sia piaciuto. Ho trovato molto coinvolgente la parte finale, ma in diversi punti la narrazione è confusionaria e, non so se dipenda dalla traduzione o da qualche errore nella stesura, ma non si riesce a capirne il senso. È il caso, ad esempio, di questo passaggio…

“Vorrei che il gesso avesse il sapore dei bottoni bianchi quando mordo bacchette bianche o un infelice batte bacchette bianche su un muro nero e fa schioccare cimici bianche e gesso bianco come una cimice che schiocca bianca in un bianco cespuglio che schiocca. Il miele è aspro per il malvagio, acido dolce.”

Tuttavia, riconosco all’autore il merito di avermi fatto conoscere una pagina di storia che non conoscevo. È una pagina vergognosa, che fa arrabbiare e indignare, ma che merita di essere conosciuta, con la speranza che possa insegnarci l’importanza di combattere contro i pregiudizi, e a non ripetere più gli stessi errori (il termine “orrori” sarebbe più appropriato). “Un altro Eden” è sicuramente un romanzo che può servire a smuovere le coscienze.  

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