Candore immortale. Antonio Canova, una storia d’amore, d’arte e di libertà nell’Europa infiammata da Napoleone di Luca Nannipieri

1796. Napoleone conquista Milano e inizia a saccheggiare chiese, abbazie, palazzi storici, trafugando alcune fra le opere più importanti al mondo: Leonardo da Vinci, Michelangelo, Raffaello, Tiziano… Mai nei secoli vi era stata una razzia di capolavori così estesa. Antonio Canova è già noto e ammirato per le sue eteree sculture realizzate nella purezza del marmo. In quegli anni, sfidare Bonaparte sembra impossibile, ma Canova sente di non avere scelta: riporterà in Italia i capolavori sottratti, una missione che lo porterà a mettere a repentaglio la sua stessa vita – e, più tardi, dopo il crollo del vasto impero – a diventare il primo monument man di sempre. Mentre, sullo sfondo, va in scena la Grande Storia – con un’Europa stretta nella morsa napoleonica, ma in cui la scintilla del malcontento accende già i primi incendi d’insurrezione – un sentimento tormentato mette in luce il Canova uomo che, tramite l’arte, si redime scolpendo capolavori d’amore incorrotto come Amore e Psiche, ma nel cui cuore si annidano passioni violente, gelosia e perfino pensieri d’omicidio. In questo romanzo – avvincente affresco umano oltreché storico – si svelano i segreti di uno degli artisti più grandi di tutti i tempi: le ombre nere del marmo più candido.

  • Editore ‏ : ‎ Rizzoli (13 settembre 2022)
  • Lingua ‏ : ‎ Italiano
  • Copertina flessibile ‏ : ‎ 240 pagine

Recensione a cura di Claudia Renzi

Conosco bene la casa-studio romana di Antonio Canova, all’angolo tra le attuali via delle Colonnette e via Antonio Canova, perché si erge letteralmente di fronte al portone principale dell’ospedale nel quale sono nata, il San Giacomo degli Incurabili. 

Antonio Canova si trasferì a Roma nel 1779, dimorando inizialmente a Palazzo Venezia ospite dell’ambasciatore veneto Girolamo Zulian. Nella città eterna il geniale scultore avrebbe stabilito il suo quartier generale e qui si svolge, principalmente, la trama del romanzo di Nannipieri. 

Antonio, nato a Possagno nel 1757, rimase orfano di padre a soli quattro anni, e la madre lo lasciò alle cure del nonno paterno Pasino, tagliapietre, che iniziò a portarlo con sé sui cantieri piuttosto presto finché, notato da un mecenate, nel 1768 il fanciullo fu mandato a studiare a Venezia presso la bottega di Giuseppe Bernardi detto Torretti. La sua inclinazione e passione per la statuaria classica lo portò ben presto a cimentarsi con la scultura in marmo a grandi dimensioni: tra le prime opere note spicca Dedalo e Icaro, gruppo commissionatogli dal procuratore Pisani: era il 1779 e Canova aveva poco più di vent’anni (Venezia, Museo Correr). 

Il tema mitologico, sull’onda del revival neoclassico scaturito dalla scoperta di Pompei nel 1748, si sposava perfettamente con le doti di Canova che cercò di dare movimento, grazia ed espressione ai suoi marmi tanto che lo scultore non è etichettabile come mero “neoclassico” poiché, a differenza dei colleghi contemporanei (es. il bravissimo Thorvaldsen), le sue statue sono più animate, più passionali. Le sue opere non possiedono forse la veemenza dei marmi di Buonarroti o il genio stupefacente di quelli di Bernini, ma si distinguono abbastanza da permettere di annoverare Antonio Canova tra i più gradi scultori di sempre. 

Di due sole cose ha bisogno un artista: la matita e lo scalpello. 

Questi soltanto sono gli strumenti giusti per guadagnarsi, 

se ci riesce, l’immortalità.

Il trasferimento a Roma permise a Canova di approfondire la sua passione per la statuaria classica: soltanto in Vaticano ebbe modo di studiare esempi eccezionali, che avrebbe tenuto sempre a mente come modelli di riferimento: l’Apollo del Belvedere, tanto ammirato, è rievocato infatti nel Perseo trionfante, custodito anch’esso ai Musei Vaticani.

La location dalla quale parte la narrazione di Nannipieri è lo studio nel rione Campo Marzio, acquistato dallo scultore nel 1803: il preesistente complesso di casupole, di proprietà degli Agostiniani della vicina Santa Maria del Popolo, fu ristrutturato in modo da potergli servire da casa e studio (l’ingresso principale dell’edificio è oggi corrispondente al civico 27 di via delle Colonnette, e vi si ospitano mostre e presentazioni): è qui che l’artista vede il decollo definitivo della sua fulminante carriera, riceve commissioni di principi e prelati, supervisiona il lavoro degli allievi, accoglie ospiti più o meno opportuni.

Per terra, fogli, fogliacci, tele, argilla sformata, gessi abbozzati. Su una 

parete una targa marmifera portava scritto il nome dell’artista, 

il nome conosciuto nell’urbe, in tutta la penisola e anche oltre: Antonio Canova. 

Il magister, il maestro Antonio Canova.

In Candore immortale non manca il lato romantico: la tormentata relazione dello scultore con l’amata promessa sposa di un tempo, Domenica Volpato (che però gli aveva preferito l’incisore napoletano Raffaello Morghen), è il sub-plot che percorre l’intero romanzo. 

Davanti a lui si parò una donna, alta, di una magrezza evidente, 

rischiarata appena da una flebile lanterna cieca che portava in mano. 

Non aspettò neppure che si salutassero. Gli disse: «Amatemi, o mi uccido. 

Non scherzo. Fatemi entrare».

«Vostro marito potrebbe scoprire che uscite a quest’ora.» 

«Mio marito è nella sala del Caffè Greco a giocarsi i suoi soldi 

con gli altri bevitori. Amatemi.»

«No. L’amore è l’unica cosa al mondo che non può essere obbligata.»

Amareggiato dalla delusione – Canova non si sposò né ebbe figli – lo scultore si tuffò nel lavoro: a Roma licenziò gruppi quali l’eccezionale Amore e Psiche giacenti (Louvre), Ercole e Lica, Venere e Adone e la sua fama crebbe al punto che il “nuovo Fidia” fu richiesto e conteso da re, papi e imperatrici: Caterina II lo invitò in Russia, ma lui declinò (pur omaggiando la sovrana con una seconda versione dell’Amore e Psiche giacenti, oggi all’Hermitage) così come rifiutò di traferirsi in Austria alla corte degli Asburgo. 

Ben presto, inevitabilmente, anche Napoleone si accorse del più dotato scultore del suo tempo e pretese che lavorasse per lui, o meglio per la sua gloria, e Nannipieri ricostruisce l’intera vicenda con dovizia di particolari, frutto di grande documentazione, riuscendo nell’impresa di non risultare mai noioso: lo scultore, comprensibilmente restio a lavorare per colui che aveva ceduto la Repubblica Veneta all’Austria, dovette tuttavia obbedire, sollecitato se non costretto da Pio XII, e si risolse a partire per Parigi dove giunse nel 1801. Qui licenziò per l’impegnativo connazionale dei ritratti quali il colossale ritratto nelle vesti di Marte pacificatore, idealizzato tanto da suggerire una continuità tra l’Impero Romano e quello del volitivo Bonaparte che, tuttavia, fece depositare la statua nei magazzini del Louvre, coprendone per di più le nudità. Filtrare la Natura attraverso il Bello portò Canova a fare ritratti fortemente idealizzati, dove Napoleone è quasi un novello Augusto, trasfigurato in una bellezza classica e maschia che non corrispondeva di fatto alla realtà ma, semmai, al carisma e all’autostima dell’effigiato. Un rapporto contraddittorio, il loro, che l’autore descrive in maniera convincente. Anche una delle sorelle di Napoleone, del resto, era stata eternata dallo scalpello del grande artista: la statua ritraente Maria Paola Bonaparte detta Paolina, che aveva sposato il principe Camillo Borghese, è una delle sculture più celebri al mondo, tuttavia, per quanto affascinante, anche Paolina è ritratta idealizzata come Venere Vincitrice (in mano ha il pomo vinto in seguito al cd Giudizio di Paride):

«La bellezza ideale nell’arte non è rappresentare le cose così come sono, 

ma come dovrebbero essere. Questa è la vera sfida: rappresentarle 

come dovrebbero essere e migliorarle, aggiungendo loro quel grado 

massimo di grazia, di nobiltà, di eccellenza che prima non avevano. 

[…] Se con l’arte volete commuovere gli altri, occorre anzitutto

che voi abbiate messo in moto voi stessi, ovvero che tutta la vostra

persona, nella sua interezza, ne sia emotivamente coinvolta.» 

Canova riuscì a tornare a Roma per assistere alla sua occupazione da parte dei Francesi nel 1808: un sapiente intreccio di realtà e finzione è la perfetta ricetta del romanzo riuscito e Nannipieri, forte della sua indubitabile competenza in materia, esordisce come scrittore con un romanzo appassionante, in cui si muovono convincentemente personaggi sia reali che fittizi, le cui vicende sono apprezzabili sia da chi non è addentro alla materia che da chi invece già conosce Canova ed è interessato ad approfondire la vicenda delle spoliazioni napoleoniche. Uno dei fulcri della narrazione, infatti, ruota attorno al triste saccheggio di opere d’arte che tutta la penisola subì per il capriccio dell’Imperatore. 

Ciò che io cerco, prima di ogni altra cosa, è la grandezza. Ciò che è grande 

è sempre bello. Bene. Cercate la grandezza. Cercatela

ovunque. Cercate ovunque le opere degli immortali. Michelangelo,

Raffaello, Tiziano, le madonne dorate di Giotto, Cimabue, e gli altri, 

tutti gli altri! Ma cercateli. E prendeteli. Con la vita o con la morte […] Per far questo» 

proseguì Napoleone «occorre che il grande castello di Parigi possa diventare

il Grand Louvre di Napoleone: il luogo dove si conserva la memoria 

dell’intera civiltà umana. Non sarà un luogo qualsiasi, non un archivio, 

o un deposito: sarà il luogo, unico in tutta la distesa della Terra, 

dove sono custoditi i massimi capolavori dell’umanità.» […] 

«Le briciole lasciamole ai topi» disse Napoleone «voglio solo gli immortali. I nomi immortali. 

Al di sotto dell’Olimpo non mi è mai interessato niente.»

Dopo la decaduta definitiva di Napoleone, sarà proprio Antonio Canova ad essere incaricato di recarsi nuovamente a Parigi stavolta per recuperare il maggior numero di opere trafugate in quegli anni. Si tratta di una quantità esorbitante di capolavori, puntualmente elencati da Nannipieri che ricostruisce la vicenda con minuzia certosina. Purtroppo, il recupero che Canova poté operare fu soltanto parziale: impossibile rintracciare le opere più piccole, i disegni, le ceramiche, i codici miniati e altri “frammenti” persi nelle maglie del mercato nero. Un esempio su tutti: i quaderni di Leonardo custoditi all’Ambrosiana di Milano (ben 14 taccuini) sono rimasti a Parigi. 

«Non sarà semplice riportare a casa tutto il maltolto» proseguì il pontefice 

«perché tanti re, principi, duchi desiderano possedere i tesori trafugati e 

molte opere sono state già spartite. Il vostro compito, maestro Canova, 

sarà far ritornare nelle nostre chiese, nelle nostre abbazie, nei nostri castelli, 

nei nostri palazzi arcivescovili, anzitutto le maggiori glorie dell’arte italiana: 

Michelangelo, Leonardo da Vinci, Raffaello, Tiziano, Guercino, Tintoretto e

tutti gli altri grandi maestri della pittura e della scultura.»

«A cominciare dall’antica arte greca e romana rubata nei vostri cortili» 

disse subito Canova.

«Certo! L’Apollo del Belvedere e il Laocoonte!»

A quella parola, Laocoonte, Canova si sentì rianimato.

Il candore immortale delle sue opere proietta, a giusto titolo, il genio di Possagno nel firmamento dell’Arte. 

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