Di freccia e di gelo – Piero Lotito

Da quando è stato ritrovato, nel 1991 – restituito in condizioni miracolose dai ghiacciai delle Alpi altoatesine –, l’uomo del Similaun, comunemente conosciuto come Ötzi, è divenuto una fonte inesauribile di informazioni su com’era la vita cinque millenni fa a pochi chilometri da noi. Ma un essere umano non è soltanto usi e abitudini. Gli è propria una sostanza immateriale più profonda, fatta di sogni, paure, desideri, rimpianti. In una parola, emozioni. Se oggi la mummia nella sua teca potesse parlarci di queste, esattamente come fa il suo corpo per i cibi ingeriti e le ferite subite, che cosa direbbe? È quanto immagina Piero Lotito: che Ötzi sveli la sua storia a quei visi che gli si affollano davanti. Dagli anni della giovinezza con il padre Urd e la madre Mael alla sua formazione da cacciatore e, ancora, le sfide della natura, le insidie degli uomini, e poi il ritorno inaspettato di Ief, un amico di infanzia, e l’amore, improvviso e lacerante, per Alesh, una donna che non può avere, fino al tragico epilogo di una battuta di caccia e alla fuga dal villaggio. Maneggiando con sapienza gli attrezzi affilati della narrazione, Lotito combina una ricostruzione impeccabile della società proto-civile con il racconto degli elementi senza tempo di ogni esistenza umana: famiglia, rivalità, amicizia, vendetta e – sopra ogni cosa – l’amore. Facendoci rivivere, con intensità e senza stereotipi, un’avventura non poi così lontana da quella di tutti noi che millenni dopo calpestiamo, forse con meno rispetto, lo stesso pianeta.

  • Editore ‏ : ‎ Mondadori (16 gennaio 2024)
  • Lingua ‏ : ‎ Italiano
  • Copertina rigida ‏ : ‎ 204 pagine
  • ISBN-10 ‏ : ‎ 8804778814

Recensione a cura di Lia Angy Fiore

Era il 19 Settembre 1991, quando un coppia di escursionisti tedeschi trovò il corpo mummificato di un uomo tra i ghiacci della Valle Ötztal, ai piedi del monte Similaun, al confine tra l’Italia e l’Austria. Nelle vicinanze furono ritrovate anche le sue armi e il suo vestiario.

Da allora, Ötzi – questo è il nome che fu dato alla mummia – è diventato uno dei corpi più studiati della storia. Attraverso l’analisi dei suoi resti e degli oggetti che aveva con sé, sono state fatte delle interessanti scoperte sulla vita in Europa nell’Età del Rame.

Ma la mummia di Ötzi, oltre ad averci fornito preziose informazioni sulla vita di cinquemila anni fa, ci racconta anche di un omicidio: l’Uomo del Similaun fu ucciso a tradimento e inaspettatamente con una freccia scagliata da lontano, alle spalle.

Come viveva Ötzi? Chi ce l’aveva così tanto con lui da seguirlo ad un’altitudine di più di tremila metri per ucciderlo, e perché? 

L’autore di questo intenso romanzo immagina che Ötzi possa rispondere a queste domande, raccontandoci in prima persona la sua storia.

Ci racconta della sua infanzia con il padre Urd e la madre Mael, e della rigida educazione ricevuta. Ci parla di un villaggio in cui le donne sono sottomesse ai loro mariti e i padri sembrano quasi odiare i loro figli per la durezza con cui li trattano. Suo padre non fa eccezione… 

Nel suo lungo racconto, Ötzi cerca di non far trapelare troppo le sue emozioni, ma si intuisce il misto di dolore e di impotenza che deve aver provato nel vedere sua madre picchiata o trascinata per i capelli da suo padre. 

“In quei momenti avrei voluto che mio padre non fosse mio padre. Avrei voluto che io fossi figlio soltanto di mia madre, senza un padre. Ma nel villaggio gli uomini erano tutti come lui.”

Nonostante tutto, traspare l’affetto per quel genitore burbero e taciturno e il desiderio di ricevere da lui una carezza, e non solo rimbrotti e percosse.

 Ötzi riesce a trasmetterci anche la gratitudine per ogni insegnamento ricevuto dai suoi genitori. Il rispetto e la lealtà prima di tutto, anche verso gli animali cacciati.

«C’è chi bagna le punte delle frecce nel veleno. Le spingono nella corteccia dell’albero che a te piace tanto» mi aveva detto un giorno soppesando la selce che stava sbozzando. «Sono i paurosi, i vigliacchi. Un cacciatore vero non ha bisogno del veleno per vincere una sfida con la preda.»

«Sì, Urd» dicevo.

«Vorrei che tu lo ricordassi» si assicurava guardandomi negli occhi. «Se devi uccidere, sii leale.»

È soltanto un ragazzo quando suo padre viene brutalmente ucciso. È lui stesso a cercarlo tra i sentieri innevati, non vedendolo rientrare a casa, e a trovarlo privo di vita.

Per gli abitanti del villaggio, una capanna senza il capofamiglia non è più degna di alcuna considerazione. Le convenzioni sociali richiedono che Ötzi lasci sua madre da sola e abbandoni il villaggio. 

“Gli anziani soli vi erano mal sopportati, e i giovani senza una compagna mal visti. Con mia madre viva, la nostra capanna era ancora considerata parte del villaggio. Da quando lei non c’era più, tutti la evitavano: l’abitava ormai un solitario, un peso per la comunità. La mia solitudine era vista nel villaggio come una colpa.”

Ma Ötzi non riesce a non provare compassione per la sua Mael, sempre più debole e vecchia. Non riesce ad abbandonarla alla sua sorte, facendo ciò che la società si aspetta che faccia.

“E mia madre?

Che cosa sarebbe stato di lei, invecchiata e malata? Mi ponevo strane domande, me le sentivo girare nella mente. Perché mi interrogavo giorno e notte sulla sorte di mia madre, se nel villaggio avevamo tutti imparato ad accettare ciò che il cielo ci portava: la giovinezza e la forza, la vecchiaia e le malattie, e alla fine la morte?”

È proprio questa scelta a segnare il suo destino.

Sappiamo tutti come finì la vita di questo giovane uomo vissuto più di cinquemila anni fa. Forse, se avesse lasciato prima il villaggio, la sua esistenza avrebbe avuto un epilogo diverso.

Questo romanzo ha il potere di annullare ogni distanza temporale. Ascoltando la storia di Ötzi ci si sente incredibilmente vicini a lui, accomunati dall’appartenenza al genere umano, dall’essere uomini e donne che, almeno una volta nella vita, hanno provato, o proveranno, le sue stesse sensazioni ed emozioni.

La preoccupazione nel vedere il declino inevitabile dei propri genitori, il dolore per la loro scomparsa, la magia del primo amore e la sofferenza nel non essere corrisposti, il sentirsi soli e incompresi, la delusione e il dispiacere nell’essere calunniati da un amico, l’illusione di pensare che tutti in questo mondo siano corretti e leali…

“Mi dispiaceva vedere mia madre chinarsi e rialzarsi con fatica, Provavo dolore nel sentirla lamentarsi di notte, mentre io pensavo a come costruire il mio arco invincibile. E piangevo, pensando al giorno nel quale sarebbe morta. A nessuno parlavo dei miei pensieri, perché nessuno mi avrebbe ascoltato. I vecchi morivano, che cosa volevo? Avrei tenuto dentro di me tutta la pena per mia madre, prendendomi cura di lei senza lamenti.”

A un certo punto, in seguito alla morte di sua madre e dopo aver ricevuto un’accusa ingiusta e infamante, capisce che non ha più scelta: deve andare via.

“Non dovevo aver paura, camminare era la salvezza […]. Avrei provato dolore nel lasciare il mio villaggio, il vecchio recinto dei nostri animali, la montagna sopra di noi dentro le nuvole. Avrei sofferto pensando al suo spirito malvagio e ruggente nel bosco degli alberi della morte. Mi sarebbe mancato quel vento, che là soltanto assumeva insieme l’urlo del lupo e la voce umana in un unico lamento […]. Tutto stavo lasciando, ma tutto non mi lasciava.”

Ho scelto di non raccontare troppo, e di lasciare che anche voi, come me, ascoltiate la storia di Ötzi direttamente dalla sua voce. 

La voce di un uomo mite, gentile, con un profondo amore e rispetto per la natura, poco avvezzo a mettere a nudo la sua interiorità e le sue emozioni, ma capace di arrivare al cuore.

Una morte violenta e avvolta nel mistero la sua. Si prova un nodo nello stomaco nel pensare che fu colpito alle spalle, senza avere nessuna possibilità di difendersi, in un momento in cui pensava di essere ormai al sicuro.

“Nelle gambe portavo la salvezza, nelle braccia il sostentamento, nella testa il pensiero, nel cuore il coraggio.”

“Mi avevano rintracciato. Mi avevano colpito, ci erano riusciti. Pensai al veleno, forse la punta della freccia era bagnata nel veleno del tasso. 

Mio padre mi aveva insegnato la purezza: «Se devi uccidere, sii leale». Uscendo dal rifugio, non avevo visto nessuno: chi poteva aver tirato una freccia con quella potenza?”

Chissà se fu ucciso da qualcuno che conosceva bene, e perché il suo assassino covava un rancore così forte da spingerlo a seguirlo lungo un cammino impervio, fino a un’altitudine di più di tremila metri.

Il ghiacciaio del Similaun, silenzioso testimone di questo brutale assassinio, continua a custodire il mistero.

Di freccia e di gelo” è un romanzo delicato e coinvolgente, in cui fantasia e storia si mescolano sapientemente per dare vita a un racconto vivido e perfettamente credibile. 

Spesso, nell’osservare delle mummie o dei resti di persone vissute in altre epoche, ci si dimentica che un tempo sono stati esseri umani come noi e non ci si accosta ad essi con il giusto rispetto.

Spero che la lettura di questo romanzo possa servire anche a questo: a infondere nei numerosi visitatori del Museo Archeologico dell’Alto Adige una maggiore sensibilità ed empatia, e un sentimento di compassione e di rispetto verso Ötzi.

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