Gli artigli della Corona. La seconda guerra dell’oppio di Daniele Cellamare

Sono passati cinque anni dalla notte in cui, in fuga da Nanchino per ricostruirsi una nuova vita, Maylin ha visto il suo Shaoran cadere nelle acque nere del porto, abbattuto dal fuoco di un Taiping, i fanatici Adoratori di Dio che stanno insanguinando il Regno di Mezzo per abbattere la dinastia Qing. Devastata dal dolore ma non rassegnandosi mai all’idea che il suo Piccolo Lupo sia morto, la giovane donna si mette in cammino per raggiungere Shanghai e portare in salvo suo figlio. E mentre l’esercito imperiale fatica a soffocare l’avanzata dei Taiping, favorita dalle conseguenze della Guerra dell’oppio, le potenze occidentali puntano a espandere il loro dominio sulla Cina e a legalizzare il commercio della terra nera, e chiedono al governo di Pechino la revisione dei trattati. Di fronte al rifiuto dell’imperatore Xianfeng di negoziare, la Gran Bretagna e la Francia assediano il porto di Canton prendendo a pretesto l’uccisione di un missionario francese e l’arresto dell’equipaggio della nave Arrow, accusato di pirateria, dando avvio a un nuovo conflitto, mentre infiammano le ribellioni antidinastiche dei Nian e dei musulmani, e la Cina prova ad avviare un processo di modernizzazione.

  • Editore ‏ : ‎ Les Flâneurs Edizioni (1 dicembre 2022)
  • Lingua ‏ : ‎ Italiano
  • Copertina flessibile ‏ : ‎ 308 pagine
  • Recensione a cura di Alice Ortega

Sono sempre stata affascinata dall’Oriente, e in particolare dalla Cina: un impero immenso e una civiltà antichissima che noi occidentali spesso fatichiamo a comprendere, forse proprio perché non ne conosciamo la storia. Ed è così che la lettura di un romanzo storico può aiutarci ad approfondire questa conoscenza, fornendoci chiavi di interpretazione che altrimenti ci sarebbero precluse.

“Gli Artigli della Corona” esordisce con una scena di vita quotidiana, in cui Maylin pettina il suo bambino, Ming, e nel frattempo veniamo a conoscenza del contesto: Mayling ricorda il suo grande amore Shaoran, il padre di Ming, che ha perso di vista molti anni prima in circostanze drammatiche. Intorno a questa vicenda così intima, l’autore mette in scena lo scontro epico tra Cina e potenze europee che prese corpo nelle cosiddette “Guerre dell’oppio”, ma che in realtà aveva mille sfaccettature.

Da sempre la Cina aveva comunicato con l’Europa attraverso la mitica “Via della Seta”, ma anche quando cominciarono ad avviarsi i primi traffici marittimi al di fuori di essa, il mercato cinese era largamente autosufficiente e le importazioni dall’Europa erano molto inferiori rispetto alle esportazioni. Nei secoli successivi, si venne quindi a creare un pesante deficit commerciale per le potenze europee. Anche il Regno Unito si trovava ad importare dalla Cina molto più di quanto esportasse, a causa della domanda di té, riso, seta e porcellana. 

L’oppio era presente in Cina da lungo tempo, già dalla fine del XV secolo se ne registrava un largo consumo alla corte degli imperatori della dinastia Ming; i fenomeni di dipendenza erano sempre più frequenti e nel 1729 ne vennero vietati la vendita e l’uso, mentre l’importazione poteva avvenire solo a fini terapeutici. 

La Compagnia britannica delle Indie Orientali, dopo aver conquistato il Bengala nel 1757, cominció a coltivarlo in quella zona assicurandosi il predominio nei traffici e imponendo un sensibile aumento del suo prezzo nei mercati internazionali. Attorno alla metà del XVIII secolo la dinastia Qing aveva nel frattempo limitato gli scambi con l’estero, concedendo ai mercanti il solo porto di Canton, nel quale operava in regime di monopolio (detto “cohong”), e imponendo una serie di dazi alle importazioni.

Per appianare i bilanci scompensati dalla sproporzione tra entrate e uscite con la Cina, verso la fine del XVIII secolo la Compagnia britannica delle Indie Orientali cominciò a trasportare oppio in Cina (dove – malgrado la proibizione – era tornato di moda) scambiandolo con argento: in questo modo i Britannici si arricchirono sempre di più, mentre le scorte cinesi d’argento iniziarono a diminuire e crebbe ulteriormente il numero di Cinesi tossicodipendenti. Intanto la corruzione tra i funzionari cinesi cresceva, e non si faceva nulla per estirpare il traffico.

Nel romanzo assistiamo allo scontro tra le varie fazioni in lotta: un Impero cinese in declino i cui imperatori non sono in grado di prendere in mano la situazione, gli occidentali incapaci di vedere nella Cina altro che un Popolo arretrato da sfruttare, fasce della popolazione cinese portate all’esasperazione che si ribellano alla situazione, come i temuti Taiping ma non solo, e il popolo che vorrebbe semplicemente vivere in pace ma che si trova letteralmente tra l’incudine e il martello.

Si tratta di vicende affascinanti e complesse di cui il romanzo ci dá solo un assaggio; in effetti mi sarebbe piaciuto averne una panoramica più approfondita, tuttavia non posso avere una visione completa perché questo è il secondo volume di una dilogia e immagino che i contenuti di cui sento la mancanza siano stati inseriti nel primo volume.

I personaggi sono tanti: anche qui avrei amato che fossero delineati in modo più completo, mentre spesso vengono ridotti a semplici macchiette. Anche la vicenda così delicata di Maylin e Shaoran viene trattata in modo un po’ superficiale, senza una parola sul tormento di Ming, che crescendo abbandona senza una parola i genitori per diventare un ribelle sanguinario e si unisce a uno di quei gruppi che si schierano in difesa della Cina, contro gli invasori stranieri.

Concludendo, oltre al desiderio di leggere il primo volume per avere una visione completa della storia narrata, questo libro mi ha lasciato un quadro abbastanza chiaro della situazione dell’epoca, in cui un impero in declino, la Cina, subisce l’aggressione dell’Occidente, ma più in generale delle varie potenze mondiali: un percorso che, allo schiudersi del XX secolo, avrebbe portato alla “Rivolta dei Boxers” e al successivo intervento di una forza militare inernazionale nello stesso cuore di Pechino. 

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