I capelli di Lucrezia

A cura di Renato Ghezzi

Era un ottobre freddo per Milano, ma un viaggiatore proveniente dalla lontana Inghilterra era abituato a ben altro. George Byron si avvolse nel mantello e percorse a larghi passi quel breve tratto che lo avrebbe portato dal Duomo alla Pinacoteca Ambrosiana.

La cattedrale, con la sua struttura solida e quegli innumerevoli pinnacoli che puntavano diritti verso il cielo, lo aveva estasiato. Quanto era vivida la sua chiarezza, quanto leggiadro il suo ricamo, in confronto con la cupa severità di Westminster! Pur essendo solo la prima tappa del suo viaggio in Italia, Milano stava conquistando il giovane Lord, che si augurava di incontrare chissà quali altre meraviglie, nel capoluogo lombardo e nelle altre città che intendeva visitare.

Nel museo, venne accolto dal curatore, che lo accompagnò lungo le sale e i corridoi, descrivendo all’illustre ospite le opere esposte.

Medioevo, Rinascimento, Seicento: l’arte italiana, agli occhi di Byron, era di uno splendore che non aveva paragoni al mondo. Pur se il suo spirito romantico era attirato dall’epoca medievale, non poteva negare che la pittura rinascimentale avesse raggiunto una grandezza mai veduta prima, e che forse mai sarebbe stata eguagliata in futuro.

Era ammaliato da tali dipinti, ma nell’osservarli provava un senso di disagio, come di una aspettativa ancora non soddisfatta. Era come se quel museo contenesse qualcosa che lo aspettava, che desiderava mostrarsi a lui, e che ancora non lo aveva incontrato.

Al primo piano, entrò in una sala che ospitava, più che quadri, oggetti di raffinatissima fattura. Al centro, un tavolo sorreggeva alcune teche di vetro, piuttosto dozzinali. Byron si sentì come richiamato da una di esse, vi si accostò e di colpo comprese. La vetrina proteggeva alcune lettere e un oggetto molto peculiare: era quello ad aver attirato l’attenzione di lord Byron.

Era una ciocca di capelli lunghi, chiarissimi, piuttosto arruffati. Ecco cosa lo aveva incantato, ecco cosa lo attendeva in quel luogo. 

«Sono i capelli più biondi che si possano immaginare, mai ne ho visti di così biondi!» esclamò.

Il curatore si avvicinò alla teca. «Sono di Lucrezia Borgia», spiegò.

«Lucrezia Borgia? Quella Lucrezia Borgia?» Ci mancò poco che, per l’eccitazione, Byron afferrasse il povero curatore per il bavero della giacca.

«Sì, lei. Non ne conosco altre.»

«Come sono arrivati qui?» domandò il poeta, che aveva ritrovato una certa calma.

«Non lo sappiamo con esattezza. Sono qui da più di cento anni, almeno dal 1685, per quello che ci dicono i documenti. Furono trovati per caso, in un manoscritto, insieme a quelle lettere», e indicò i fogli ingialliti custoditi insieme alla ciocca di capelli.

«Di chi sono?» Byron avvertiva che quella storia stava per rivelare aspetti ricchi di sentimento.

«Si tratta di un carteggio tra Lucrezia Borgia e il poeta Pietro Bembo. Lei era sposata con Alfonso d’Este, l’ennesimo matrimonio obbligato. Alla corte di Ferrara conobbe il Bembo e tra loro nacque una forte amicizia che…»

«Un amore?» lo interruppe l’inglese, che già si immaginava nei panni del Bembo mentre cercava di sedurre una delle più belle donne del suo tempo.

«Forse, ma platonico, almeno così dice la storia. Il tutto si risolse in una relazione epistolare, che ora si dispiega sotto i vostri occhi.»

Una relazione epistolare! Allora, pensò Byron, anche nel Rinascimento c’era del romanticismo! Immaginò i due che si incrociavano nelle sale del castello senza scambiarsi una parola, forse nemmeno uno sguardo. Poi, nel chiuso delle loro stanze, esprimevano sulla carta i loro sentimenti, e con mille espedienti riuscivano a far giungere la loro missiva a destinazione, con la complicità di qualche paggio compiacente.

Il Lord osservò di nuovo la meravigliosa ciocca bionda.

«Peccato che siano così scarmigliati!» disse, con un sospiro.

Il curatore sollevò un angolo della bocca, in una specie di sorriso ambiguo.

«Voi dite? Sarete ancora a Milano, tra qualche giorno?»

Al segno di assenso di Byron, il curatore gli si avvicinò e gli sussurrò nell’orecchio: «Fatevi trovare qui la mattina del due novembre, Giorno dei Morti. Mi raccomando, prima dell’orario di apertura.»

Il lord fece un passo indietro e fissò il suo interlocutore. La sua espressione tesa, serissima, convinse Byron che non si trattava di uno scherzo.

«Bene, ci sarò.»

Il mattino del due novembre, la nebbia avvolgeva la città con il suo mantello grigio. Anche quel velo umido e fitto sembrava al viaggiatore più chiaro e ameno della cortina color carbone che invadeva le vie di Londra in quella stessa stagione.

Quando la raggiunse, la porta della Pinacoteca Ambrosiana era chiusa. Del resto, Byron sapeva di essere in anticipo. La curiosità di conoscere cosa lo attendeva era stata troppo forte, non gli aveva consentito di attendere nella sua camera d’albergo. Per questo si era presentato all’appuntamento almeno quindici minuti prima dell’ora convenuta.

Per sua fortuna, l’attesa del poeta non durò a lungo.

«Lord Byron», si sentì chiamare attraverso la nebbia. Di lì a un istante vide emergere dalla bruma la figura del curatore. Anche lui, come molti milanesi, amava arrivare per tempo. «Una bella scighera, oggi…» commentò.

Allo sguardo interrogativo dello straniero, spiegò. «Scighera, per noi è più che nebbia, è quando non si vede a un palmo dal naso. Do you understand?» E, senza aspettare la risposta di Byron, estrasse dal cappotto il mazzo di chiavi, aprì e fece segno al lord di entrare per primo.

Andarono direttamente al primo piano, alla loro meta. Byron osservò la teca e poco ci mancò che l’emozione non lo facesse svenire.

Si riprese un poco e guardò di nuovo, con attenzione, la ciocca di capelli. Non riusciva a credere a quel che era sotto i suoi occhi.

«Sono lisci, perfettamente pettinati», sussurrò, quasi temendo che qualcuno lo potesse sentire.

«Come ogni anno», disse il curatore, con indifferenza.

Byron si voltò. «Li avete pettinati voi?»

Il curatore sorrise, questa volta con tutta la bocca. «No, lo fa lei.»

«Lei?»

«Lucrezia Borgia.»

Byron divenne ancora più pallido del suo colorito abituale. «Volete dire che…»

«Ogni anno, nella notte tra Tutti i Santi e il Giorno dei Morti, il fantasma di Lucrezia Borgia viene qui, nell’Ambrosiana, e si prende cura dei suoi capelli. Nessuno l’ha mai vista. Abbiamo tentato degli appostamenti notturni, ma non siamo mai riusciti a sorprenderla. Non sappiamo come possa estrarre i capelli dalla vetrina, come faccia a pettinarli. Sappiamo solo che la sera del primo novembre sono crespi e sciupati e la mattina del due sono lisci e splendenti.»

Inventore di mille storie fantastiche, poeta di somma immaginazione, di fronte all’imperscrutabile mistero celato in una ciocca di capelli biondi, lord George Byron crollò.

«Andiamo via, vi prego» fu tutto quello che riuscì a dire.

Il giorno dopo, in modo del tutto imprevisto, Byron lasciò Milano e partì precipitosamente per Venezia.

Lord George Byron visitò davvero Milano, come prima tappa del suo tour in Italia, nell’ottobre del 1816. Nella Pinacoteca Ambrosiana, ammirò i capelli di Lucrezia Borgia e più tardi scrisse: «I capelli più biondi che si possano immaginare e che mai ho visti di così biondi.»

Non sappiamo se a Byron davvero venne raccontata la leggenda dei capelli di Lucrezia Borgia, né se si recò all’Ambrosiana il mattino del due novembre, ma ci piace immaginarlo. Come ci piace immaginare che la sua partenza per Venezia fosse dovuta al turbamento per la vista del prodigio.

Fu proprio grazie al culto di qui capelli, nato con Byron e i romantici dell’Ottocento, che il museo decise di rendere onore a quella preziosa ciocca. Attualmente i capelli di Lucrezia sono nella sala 8 della Pinacoteca Ambrosiana, protetti da una piccola e raffinata teca di vetro, realizzata da Alfredo Ravasco, uno dei più valenti orafi milanesi della prima metà del Novecento. 

Ancora oggi Lucrezia Borgia fa visita ogni anno alla pinacoteca, la notte tra l’uno e il due novembre, e pettina con cura la sua lunga ciocca di splendidi capelli biondi.

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