La spada di Manfredi di Francesco Nobile

A Parma, nei pressi dell’accampamento chiamato Vittoria, Federico II subisce una delle più cocenti sconfitte della sua vita. L’Impero è battuto dai Comuni del nord, coalizzati dalle abili trame di papa Innocenzo IV, nemico giurato della dinastia sveva. L’idea di annettere l’Italia al Regno di Sicilia sembra tramontare, ma tra le macerie dell’accampamento qualcosa si è salvato, un potente segreto che tiene in vita le speranze dei ghibellini. Sarà Manfredi, figlio prediletto di Federico, a raccogliere l’eredità di una dinastia cosmopolita, amica dell’Islam e amante della poesia e della scienza, prima che svanisca per sempre. Una sfida terribile, che lo porterà a dismettere i panni di semplice falconiere, per imbracciare la spada e lo scudo contro i nemici della sua famiglia. Solo per un ignoto disegno del destino, toccherà a lui, e non all’erede al trono Corrado, cingere la corona del più avanzato Regno che il Medioevo abbia conosciuto. Anni dopo, un cavaliere bussa alla porta di Dante Alighieri, con una storia da raccontare: sarà il sommo poeta a cogliere il segreto più profondo della dinastia sveva e a farsene carico con la sua opera immortale. Tra cavalieri normanni, mosaici bizantini e danzatrici d’Oriente, si snodano i fili di un sud inedito, crocevia del Mediterraneo e cardine di una nascente speranza.

  • Editore ‏ : ‎ Marlin (Cava de’ Tirreni) (31 marzo 2022)
  • Lingua ‏ : ‎ Italiano
  • Copertina flessibile ‏ : ‎ 335 pagine

Recensione a cura di Claudia Pellegrini

La nostra storia si apre nell’anno 1314, quando Dante Alighieri si trova alla corte dei Malaspina e un uomo misterioso bussa alla sua porta. Dice al poeta di avere una storia da raccontargli e porta con se un antico codice:

“Sul frontespizio campeggiava uno stemma: un’aquila nera con le ali spiegate, il becco dorato e gli artigli rossi. Più in basso, il profilo di un volto coronato d’alloro. Ancora più in giù, un nome dai caratteri latini. Federico II Cesare Imperatore Romano”.

Il racconto del misterioso cavaliere inizia nell’anno 1245, quando il pontefice Innocenzo IV dichiara Federico II colpevole di sacrilegio per aver stretto alleanza e amicizia con i saraceni, gli infedeli, invece di combatterli, dunque indegno della corona che porta sul capo, lo dichiara decaduto e lo scomunica.

Federico Ruggero di Hohenstaufen non ha bisogno di presentazioni. Re di Sicilia, duca di Svevia, Re dei Romani, Imperatore del Sacro Romano Impero e re di Gerusalemme, meglio conosciuto con l’appellativo di “stupor mundi”. La sua brillante personalità poliedrica affascina da secoli. Parlava ben sei lingue (latino, siciliano, tedesco, francese, greco e arabo), ed ebbe un ruolo importante nel promuovere lo studio delle lettere nella sua corte di Palermo, dove la poesia che venne prodotta dalla Scuola Siciliana ebbe una notevole influenza sulla letteratura e su quella che sarebbe diventata la moderna lingua italiana. Inoltre la sua corte divenne un luogo di incontro fra le culture greca, latina, germanica, araba ed ebraica, azione volta principalmente a unificare le terre e i popoli, ma, come accennato, fortemente contrastata dalla Chiesa tanto da valergli la scomunica.

Ma torniamo al racconto del misterioso visitatore del sommo poeta. Siamo all’accampamento imperiale nei pressi di Parma, dove gli svevi attendono il momento ideale per poter mettere a ferro e fuoco la città. Enzo, figlio di Federico II, nutre qualche sospetto nei confronti di Taddeo da Sessa, poiché la sua ambasciata presso il papa condotta in concerto con Pier delle Vigne, altro dignitario degli svevi, non ha impedito la scomunica dell’imperatore. Si tratta di tradimento? Nell’accampamento reale vi è anche un giovanissimo Manfredi, impegnato nello studio delle lettere e nella pratica della falconeria, nobile arte particolarmente cara alla famiglia dell’imperatore. Il ragazzo però si troverà faccia a faccia con gli orrori della guerra quando l’accampamento verrà improvvisamente invaso dai cittadini di Parma che, grazie ad uno stratagemma, riusciranno a penetrare nel cuore delle difese sveve perpetrando una carneficina, tra i morti ci sarà anche lo stesso Taddeo da Sessa, e costringeranno l’imperatore e i principi a fuggire.

Dante Alighieri ascolta con molto interesse ciò che l’uomo misterioso ha da raccontargli, anche se non comprende chi sia e per quale motivo si sia presentato al suo cospetto per parlargli degli ormai defunti svevi:

“Non capiva quali fossero i pieni del suo interlocutore: perché gli stava raccontando di re Enzo, di Manfredi, e dei tanti personaggi di un’epoca ormai sepolta? In definitiva, cosa voleva da lui?”.

Ma il racconto procede continuando le vicende degli svevi e di chi gravitava intorno a loro. In particolare, il nostro narratore si sofferma sulla triste vicenda di Pier delle Vigne, accusato dal suo imperatore di essere un traditore, rinchiuso in una cella e accecato per la sua grave colpa.

“Questa è la mia pena, dunque. Un’interminabile fila di giorni nell’ombra, solo con i miei fantasmi. E la chiamano pietà. Una morte rapida avrebbe avuto il volto della misericordia. Perché mi ha lasciato in vita?”.

A questo punto mi sembra doveroso precisare che le prove della colpevolezza di un eventuale tradimento di Pier delle Vigne non sono mai state chiare. Si è da sempre ipotizzata una congiura o un’accusa di corruzione. Quel che è certo è che si suicidò sbattendo volontariamente la testa contro la parete della cella, e pertanto Dante Alighieri, nella Divina Commedia, lo colloca nella selva dei suicidi nel XIII canto dell’Inferno, assolvendolo dall’accusa di aver tradito l’imperatore ma non dalla colpa di essersi tolto volontariamente la vita. 

“L’animo mio, per disdegnoso gusto,

credendo col morir fuggir disdegno,

ingiusto fece me contra me giusto”

(Dante Alighieri, Inferno XIII, 70-72)

Nel mentre Manfredi sposa Beatrice di Savoia ed Enzo è impegnato nell’ennesima battaglia contro il papato nei pressi di Modena, dove il suo esercito viene sopraffatto mentre lui si ritrova prigioniero del podestà di Bologna. A nulla valgono le richieste di liberazione di suo padre, re Enzo purtroppo non riuscirà più a riavere indietro la libertà.

Nel 1250 Castel Fiorentino diviene la dimora di Federico II che giace malato. Ormai vicino alla fine chiama a se i feudatari più importanti, e prega Manfredi di avere cura del Regno in attesa dell’arrivo di suo fratello Corrado dalla Germania, l’erede designato. Inoltre gli dice di avere un oggetto da dargli in custodia:

“Ascolta bene il segreto di cui ti sto mettendo a parte e agisci di conseguenza. Nel campo di Vittoria ho smarrito tanti oggetti, simboli del mio potere. Ma nelle mie mani è rimasto il più prezioso, che da solo può decidere delle sorti d’Italia. Lo donerò a te, e sarà la più formidabile delle armi. Più del sigillo, dello scettro o della corona. Qualcosa che, da solo, può plasmare il destino di un intero popolo”.

Quell’oggetto è il misterioso codice che il visitatore mostra a Dante. Ma cosa può farne di quel codice il poeta?

“Le parole contenute in quel volume sono semi di una forza straordinaria, tali da deviare il corso del tempo. Ma possono far presa solo su un cuore gentile, che sappia farli crescere”.

In seguito alla morte di Federico II, Manfredi prende in mano le redini dell’impero. Suo fratello Corrado giunge ben presto in Italia, dopotutto anch’egli è stato scomunicato dal papa e ha perso il favore della maggior parte dei baroni locali, dunque gli resta esclusivamente il lascito di suo padre, ovvero il Regno di Sicilia. Ma ben presto tra i due fratelli sorgono incomprensioni. L’assedio di Napoli, occasione che vede Manfredi come un ottimo mediatore, diviene il principio di una frattura insanabile tra i due, una frattura che insinua nell’animo di Corrado il sospetto che suo fratello sia un traditore.

“Bisogna guardarsi dai propri successi, sono pericolosi quanto i fallimenti”.

E quando Corrado muore in seguito alla malaria contratta nei pressi di Lavello, nel suo testamento non si fa cenno al fratello: l’erede designato è suo figlio Corradino, che è un bambino e si trova in Germania, la cui cura viene affidata addirittura e inspiegabilmente al papa, e la reggenza di Italia e Sicilia viene affidata ad un suo uomo, Bertoldo di Hohenburg. Tutto ciò è inammissibile per Manfredi, il quale sospetta anche che il suddetto Bertoldo sia in realtà al soldo del papa. Per evitare ulteriori inutili guerre e massacri di uomini, Manfredi progetta una riconciliazione con il pontefice, è disposto ad incontrarlo nei pressi di Ceprano per rendergli omaggio e sottomettersi alla sua benevolenza, nonostante il boccone da digerire sia pesante e amaro. Tuttavia, a causa di un imprevisto, i buoni propositi vengono meno, si sfiora la battaglia, gli svevi sono costretti a ritirarsi in fretta e Manfredi viene scomunicato, ma non per questo si arrende:

“…c’è solo un destino peggiore della morte. Ed è quello che conduce ad arrendersi senza combattere”.

Ma il papato ha in serbo una brutta sorpresa per Manfredi: offre la corona di Sicilia al figlio del re d’Inghilterra, Edmondo. A questo punto dunque non c’è più spazio per le tregue, bisogna agire, e Manfredi si reca a Palermo dove si fa incoronare re di Sicilia. Il papa è furibondo e rinnova la scomunica. C’è da precisare che Manfredi non ha preso questa decisione a cuor leggero, non aveva intenzione di sottrarre la corona al piccolo Corradino, il suo è stato un gesto dettato dall’urgenza di preservare il Regno e dal desiderio dei feudatari siciliani di non finire nelle mani di uno straniero. Ma il papato non molla, e qualche anno dopo propone la corona di Sicilia a Carlo d’Angiò, coinvolgendolo in una sorta di crociata contro gli svevi. Manfredi contrattacca stipulando un accordo con gli Aragonesi tramite il matrimonio di sua figlia Costanza.

Tra una battaglia e l’altra, gli eserciti si scontrano fino alla sanguinosa battaglia di Benevento del 1266, quando le truppe sveve vengono sbaragliate e Manfredi è costretto alla fuga, non prima però di aver affidato un prezioso oggetto nelle mani di uno dei suoi cavalieri incaricato di recapitarlo a sua sorella che è al castello di Lauro, incinta e fiduciosa che suo fratello possa tornare sano e salvo. Purtroppo non sarà così. Manfredi viene ucciso dagli angioini, i quali lo seppelliscono nei pressi di un ponte, sotto un cumulo di massi.

Bartolomeo Pignatelli, arcivescovo di Amalfi, Cosenza e Messina si reca sul posto per ritrovare le spoglie:

“…mi adopererò per riesumare quel corpo, in modo che non possa più infangare la terra dei vostri domini. Finchè si sarà una tomba, qualcuno ne serberà il ricordo, e sarà per sempre un pericolo”.

La damnatio memoriae delle spoglie di Manfredi giungerà fino a noi: il luogo definitivo della sua sepoltura è ancora oggi sconosciuto. Attualmente è Ceprano (Fr) a rivendicarne l’onore basandosi sull’interpretazione dei versi danteschi del XXVIII canto dell’Inferno, ma si tratta esclusivamente di un’interpretazione, un’ipotesi tra le tante, forse un po’ più accreditata delle altre.

Il cavaliere misterioso termina il suo racconto rivelando a Dante la sua identità, è il nipote di Manfredi, il figlio di quella sorella alla quale prima di morire aveva affidato il prezioso codice a sua volta avuto da suo padre. Si tratta di una silloge di poesie tutte scritte in siciliano:

“…c’è chi sogna una sola lingua dalla Sicilia alle Alpi. Un’unica splendida cultura. Un popolo unito in un solo regno”.

Questo codice nelle mani di Dante potrebbe diventare un’arma potente, uno strumento di rinascita, di unione, di uguaglianza, persino di pace. 

La Spada di Manfredi è un romanzo storico che ci racconta le gesta di un personaggio leggendario, quale è Manfredi, in uno dei periodi più complicati ma al tempo stesso affascinanti della lunga storia travagliata della nostra penisola, la lotta senza tregue tra guelfi e ghibellini, le due fazioni contrapposte nella politica italiana del Basso Medioevo. Le vicende degli svevi, una delle dinastie più note e meritevoli della nostra storia, non a caso si intrecciano con la presenza nella narrazione, seppur in veste di ascoltatore e non di diretto protagonista, di Dante Alighieri, il simbolo della nostra cultura. 

Dante infatti ha collocato all’interno dell’opera che lo ha consacrato all’immortalità, la Divina Commedia, tre tra i principali membri di questo casato: Federico II all’Inferno nel sesto cerchio, quello riservato agli Epicurei, Manfredi nella spiaggia del Purgatorio, e Costanza, la madre di Federico II, nel Paradiso. Questo, probabilmente, deve aver dato l’idea al nostro autore di collocare Dante all’interno della narrazione, memore anche di quanto il sommo poeta abbia ammirato questi illustri monarchi, da lui considerati come l’incarnazione del potere temporale, gli unici in grado di garantire un ordine politico nell’Italia dell’epoca, nonché ultimi rappresentanti di quei valori cortesi tanto cari al poeta.

Ed è stata altresì un’idea felice quella di affidare proprio a lui il codice di Federico II. Chi meglio di colui che diventerà in seguito il “padre della lingua italiana” avrebbe potuto utilizzare al meglio un lascito così importante?

In conclusione, La Spada di Manfredi non è solamente un romanzo storico che ripercorre fedelmente uno specifico periodo della nostra storia attraverso le gesta di un personaggio che meritevolmente è entrato nel mito, ma anche il tramite mediante il quale l’autore ha voluto lanciare un messaggio importante che ha riassunto in questa frase:

“Là dove hanno fallito falconieri, cavalieri e persino i re, i poeti riusciranno”.

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