LE PRINCIPALI BATTAGLIE DI BRACCIO FORTEBRACCI, CONTE DI MONTONE – Matteo Bruno (1 puntata)

a cura di Matteo Bruno

Sommario:
La guerra all’inizio del XV secolo
1.1 Le armi a polvere nera
1.2 L’equipaggiamento di cavalieri e uomini d’arme
1.3 Soldati di ventura
Braccio da Montone
La battaglia di Sant’Egidio – 12 luglio 1416
Contesto
Battaglia
Conseguenze
La battaglia de L’Aquila – 2 giugno 1424
Contesto
Battaglia
Conseguenze
Braccio: sognatore e utopista
Nota bibliografica

Capitolo 1: La guerra all’inizio del XV secolo
Il XV secolo è per l’Europa il periodo delle grandi innovazioni economiche, sociali e culturali che in breve porteranno alla fine del Medioevo e alla fioritura del Rinascimento. In un contesto estremamente dinamico anche l’arte della guerra subisce radicali e profondi innovamenti, dovuti soprattutto all’introduzione lenta, ma graduale delle armi da fuoco, che tuttavia non fu uniforme in ogni paese del continente. Se in Francia la prima battaglia nella quale è accertato l’utilizzo di cannoni (seppur in modo del tutto inefficace) è quella di Crécy (1346), in Italia lo sviluppo delle armi a polvere nera avvenne nei decenni successivi e ancora all’inizio del XV secolo l’utilizzo era raro.
1.1 Le armi a polvere nera. In questa fase tali armi erano utili in particolar modo durante gli assedi, specie da parte degli attaccanti, che, grazie alla potenza di fuoco dei nuovi congegni, potevano sperare di sbrecciare le mura difensive di città e castelli, in genere alte e sottili, quindi particolarmente vulnerabili ai pesanti proiettili di pietra o di metallo scagliati dai cannoni. Scarsa era invece la potenza di tali armi nei classici scontri in campo aperto. Infatti il ritmo di tiro delle artiglierie dell’epoca non permetteva di far esplodere più di due o tre colpi al giorno. Caricare un cannone era una manovra estremamente lunga e complessa: la polvere da sparo andava miscelata sul posto mescolando zolfo, carbone e salnitro; il dosaggio doveva essere accuratamente ponderato prima dell’introduzione nella camera di scoppio, altrimenti si poteva incorrere nel rischio di far saltare in aria l’arma (assieme agli artiglieri!); come se non bastasse, per evitare che l’esplosione si disperdesse, prima di “dar fuoco alle polveri” gli interstizi vuoti all’interno della canna andavano riempiti con una miscela fangosa, la quale necessitava di alcune ore per seccarsi. In definitiva quello dell’artigliere era un lavoro duro, pericoloso e spesso ingrato. I risultati concreti delle mirabolanti capacità delle nuove armi erano tali che molto spesso deludevano le attese. Gli artiglieri erano tecnici specialisti a disposizione del miglior offerente: veri e propri mercenari, i cui servigi erano estremamente costosi e solo i re o i signori più ricchi potevano permetterseli.
Per tutti questi motivi le “piccole” guerre combattute in Italia all’inizio del ‘400 mantenevano ancora un aspetto tipicamente medievale, seppure con importanti innovazioni, specie dovute all’ingegnosità di condottieri quali Braccio da Montone, come vedremo meglio in seguito.
1.2 L’equipaggiamento di cavalieri e uomini d’arme. Immaginando di trovarci su un campo di battaglia dell’epoca, vedremmo soldati e cavalieri equipaggiati e corazzati in modo impeccabile. Il periodo infatti segna il momento di massima evoluzione delle armature, il cui peso inizierà gradualmente a ridursi a partire dal 1450 circa, per poi scomparire del tutto in poco più di due secoli. Al tempo le vetuste cotte ad anelli di maglia erano state del tutto soppiantate dalle nuove corazze di ferro temprato, vere e proprie lastre di acciaio che, componendosi sul corpo tramite lacci, cinghie, perni e giunture in un complesso meccanismo ad incastro, permettevano di riparare ogni lembo di pelle; ciascuna singola placca era identificata da un nome specifico, cubitiere, manopole, gambali, pettorale o schienale, e soltanto sulle articolazioni, per ovvi motivi di mobilità, resistevano gli antiquati anelli di maglia di ferro. Come se tutto ciò non bastasse, sotto le corazze si potevano indossare usberghi di maglia o corpetti in cuoio conciato, capaci di fornire ulteriore protezione agli organi vitali del busto.
Ogni passo di un cavaliere perfettamente corazzato era accompagnato da stridori e cigolii metallici: oggi potrebbero far sorridere, ma all’epoca incutevano rispetto e timore.
Gli elmi, foderati di cuoio e indossati sopra strati di tessuto capaci di tenerli ben saldi sulla testa, erano avvolgenti sulla nuca e sulle guance, sovrastati spesso da folti piumaggi colorati. Le visiere erano di vario genere, tutte però scomode e soffocanti, provviste soltanto di piccoli forellini tali da permettere una ridotta visuale dopo averle abbassate. In Italia i migliori produttori di armature erano gli armaioli milanesi, i cui forzieri si rimpinguavano del denaro proveniente da re e principi di tutta Europa.
Sopra le corazze era prassi che ogni uomo d’arme indossasse una sopravveste con i colori o l’emblema del proprio signore feudale (o del condottiero delle cui schiere faceva parte); tale stemma, spesso raffigurante draghi, leoni, aquile o altri animali aggressivi in grado di esercitare minaccia psicologica sui nemici, era spesso ricamato anche sulle sgargianti gualdrappe dei destrieri, rivestiti anch’essi da pesanti anelli di maglia di ferro. Al contrario di ciò che il cinema ci ha abituato a pensare, gli eserciti medievali non avevano alcuna colorazione omogenea: ogni signore o compagnia mercenaria (costituita da un numero estremamente variabile di individui, da un piccolo gruppo a centinaia) disponeva di propri colori e stendardi, pertanto la visione d’insieme di un esercito risultava un folto e variegato sfarfallio multicolore, nel quale il più delle volte amici e nemici si riconoscevano soltanto dalla posizione occupata sul campo.
Per quanto riguarda le armi, si consideri che l’uso era ancora fortemente influenzato dall’ideale cavalleresco di tradizione medievale. Pertanto un uomo d’onore (o cavaliere che dir si voglia), non avrebbe mai impugnato un’arma da tiro, essendo l’uccidere da lontano considerato indegno di un appartenente alle classi sociali privilegiate.
Sul campo di battaglia invece le armi dei cavalieri erano spade, asce, martelli, mazzafrusti e picconi, per ognuna delle quali esistevano un’infinita varietà di tipologie; la spada restava l’arma che più di tutte identificava lo status nobiliare (anche perché capovolgendola somigliava ad una croce), tuttavia nel corso del XV secolo perse progressivamente efficacia a vantaggio di armi come mazze e martelli, maggiormente capaci di percuotere e fracassare le sempre più robuste armature. Diffuse erano anche le lunghe e pesanti lance da cavaliere, spesso dipinte a colori sgargianti e provviste di un drappo vicino alla cuspide, che le rendeva simili a pennoni. Incassate sotto l’avambraccio e potenziate dalla carica di un destriero lanciato al galoppo, erano in grado di terrorizzare intere formazioni nemiche e di aprirvi spaventosi varchi, tuttavia avevano il grosso inconveniente di creare notevoli problemi logistici e di poter essere utilizzate una sola volta (dopodiché il cavaliere avrebbe dovuto impugnare un’arma di altro genere).
Nel periodo preso in esame gli scudi erano quasi del tutto obsoleti: infatti le pesanti corazze di ferro temprato erano già di per sé sufficienti a riparare adeguatamente il corpo di un combattente senza che l’inutile ingombro di uno scudo ne appesantisse ulteriormente i movimenti. Resisteva invece l’utilizzo dei pavesi, grandi scudi atti a coprire i balestrieri quando scendevano in campo aperto, così ingombranti da necessitare di un apposito servitore che li sorreggesse durante la ricarica dell’arma.
A proposito dei balestrieri, va detto che in Italia erano largamente predominanti rispetto agli arcieri, tipici invece delle isole britanniche. La balestra infatti (al pari del fucile odierno) era un’arma relativamente semplice da maneggiare, per cui l’addestramento di un discreto balestriere poteva avvenire in tempi piuttosto rapidi; al contrario l’arco, e in special modo il longbow, richiedeva forza fisica ed esercizio non comuni. Rinomate ed estremamente professionali erano comunque le compagnie dei balestrieri di Genova, che spesso la Repubblica “prestava” quali truppe mercenarie a chi ne facesse richiesta, purché ovviamente i richiedenti non fossero nemici della stessa Genova.
Gli uomini d’arme appiedati erano invece la fanteria dell’epoca. In genere equipaggiati con elmi e corazze del tutto simili a quelle dei cavalieri, dai quali differivano per l’armamento, costituito di solito da armi lunghe come picche o alabarde, che andavano brandite a due mani (quindi senza scudo).
Arcieri, balestrieri o uomini d’arme appiedati erano sempre di estrazione popolare e costituivano il grosso degli eserciti dell’epoca, anche se il loro ruolo era spesso tenuto in bassissimo conto dai cronisti, che in alcuni casi nemmeno li presero in considerazione.
1.3 Soldati di ventura. Al tempo di Braccio da Montone era ancora largamente diffusa l’idea cavalleresca della guerra, come se fosse niente più che una gran giostra. Essendo gli eserciti in buona sostanza composti da varie compagnie di professionisti (o mercenari), non era insolito che condottieri un giorno nemici potessero diventare presto alleati. Si conoscevano sempre ed era prassi che tra nemici s’incontrassero per discutere e valutare se accettare uno scontro, per scegliere un campo di battaglia piuttosto che un altro, per accordarsi su quali castelli e fortificazioni occupare; tutti comportamenti che oggi appaiono strani, se non apertamente sospetti di tradimento (accusa di cui in effetti spesso erano vittima tali mercenari, come ad esempio il conte di Carmagnola).
Cavalieri, uomini d’arme o balestrieri che fossero, erano tutti mercenari al servizio di chiunque li ingaggiasse, ossia “soldati di ventura”.
In questo contesto, per i mercenari la battaglia non era altro che un necessario dovere nel quale il sacrificio di un certo numero di loro era contemplato dagli accordi presi con il proprio “datore di lavoro”, in genere il signore di una città, un re o persino il papa. Mai e poi mai questi combattimenti, seppur talvolta feroci, causavano la distruzione completa della parte sconfitta, mai si cercava di uccidere, se era possibile evitarlo, mai si mancava di rispetto al nemico sconfitto o ai prigionieri, che era prassi liberare quanto prima. Chi si macchiava di tali colpe, infatti, correva il rischio di pagarne gravemente le conseguenze: la fortuna delle armi era mutevole e il vincitore di un giorno poteva essere lo sconfitto dell’indomani. Scrisse Machiavelli, a proposito della battaglia di Anghiari del 1440: “in tanta rotta e in sì lunga zuffa che durò dalle venti alle ventiquattro ore, non vi morì che un uomo, il quale non di ferite né d’altro virtuoso colpo, ma caduto da cavallo e calpesto spirò”. L’affermazione in sé è falsa, poiché la battaglia causò parecchie decine di vittime, però è indicativa dello spirito che animava i soldati del tempo.
Ciò non significa che tra i condottieri dell’epoca non vi fossero individui senza scrupoli, ambiziosi e persino crudeli, ma soltanto che le battaglie non erano mai all’ultimo sangue, bensì sempre condizionate da regole ben definite, che tutti conoscevano e rispettavano.
Tra queste le più importanti erano quelle che definivano i rapporti tra vinti e vincitori. Seppur ogni forma di violenza doveva cessare con la resa, nei confronti dei primi era considerata normale la pratica della spoliazione di armi, armature, destrieri e qualunque bene potesse avere valore economico; si poteva anche trattenere un comandante o un nobile preso prigioniero fino a che la famiglia o il signore di appartenenza non avessero pagato un vero e proprio riscatto.
Contrariamente a ciò che noi contemporanei riteniamo, era piuttosto raro che due eserciti si incontrassero in campo aperto: le grandi battaglie erano estremamente distruttive e anche chi ne usciva vincitore non poteva evitare gravi danni. Finché possibile, si preferiva dunque operare attraverso scorribande, razzie, saccheggi, agguati, incursioni e assalti a piccoli castelli, o persino stringendo temporanei accordi con i nemici (ad esempio permettendo loro di ritirarsi da una posizione scomoda, dietro pagamento ovviamente); azioni senz’altro meno spettacolari, ma molto più sicure ed economicamente redditizie.
Tra i condottieri, la maggior parte era ancora di origine aristocratica, tuttavia all’inizio del XV secolo erano sempre più numerosi coloro che, pur iniziando come semplici uomini d’arme, finivano per far carriera e per assumere ruoli di comando importanti. Sintomo, questo, del mutare dei tempi rispetto alle tradizioni dell’Evo di Mezzo.
Per finire un’ultima considerazione sull’origine territoriale dei soldati, che quasi mai coincideva con la città per la quale si battevano. Sebbene alcuni condottieri preferissero arruolare le loro schiere nei territori di competenza (è il caso di Braccio che da Signore di Perugia costituì un esercito composto quasi esclusivamente da umbri), di norma non si faceva caso alla questione. I soldati erano considerati niente più che professionisti della guerra e, come tali, poteva capitare che si battessero contro la propria città d’origine senza che questo creasse alcun turbamento. Ciononostante alcuni territori erano soliti fornire un certo tipo di truppe “specialiste”, come i già citati balestrieri genovesi, gli alabardieri elvetici, gli arcieri inglesi o gli uomini d’arme germanici e guasconi. Un qualunque esercito dell’epoca che scorrazzasse per la Penisola era ben più eterogeneo, poliglotta e assortito di quello che oggi si possa pensare.

Continua…

 

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