Le sarte di Auschwitz di Lucy Adlington

Irene, Renée, Bracha, Katka, Hunya, Mimi, Manci, Marta, Olga, Alida, Marilou, Lulu, Baba, Boriška… Durante la fase culminante dello sterminio degli ebrei d’Europa, venticinque giovani internate nel campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau furono selezionate per disegnare, tagliare e cucire capi d’alta moda destinati alle mogli delle SS del lager e alle dame dell’élite nazista berlinese. Tranne due prigioniere politiche francesi, le ragazze erano tutte ebree dell’Europa orientale, la maggior parte slovacche, giunte al campo con i primi trasporti femminili nel 1942, dopo essere state private di tutto. Trascorrevano le giornate chine sul loro lavoro, in una stanza situata nel seminterrato dell’edificio che ospitava gli uffici amministrativi delle SS. La loro principale cliente era la donna che aveva ideato l’atelier: Hedwig Höss, la moglie del comandante. Il lavoro nel Laboratorio di alta sartoria – così era chiamato il locale – le salvò dalla camera a gas. I legami di amicizia, e in alcuni casi di parentela, che univano le sarte non solo le aiutarono a sopportare le persecuzioni, ma diedero loro anche il coraggio di partecipare alla resistenza interna del lager. Attingendo a diverse fonti, comprese una serie di interviste all’ultima sopravvissuta del gruppo, Lucy Adlington narra la storia di queste donne. Mentre ne segue i destini, intreccia la loro vita personale e professionale all’evoluzione della moda e della condizione femminile dell’epoca e alle varie tappe della politica antiebraica in Germania e nei territori via via occupati dal Terzo Reich. “Le sarte di Auschwitz” racconta gli orrori del nazismo e dei campi di concentramento da una prospettiva originale e offre uno sguardo inedito su un capitolo poco noto della Seconda guerra mondiale e dell’Olocausto. E allo stesso tempo è un monito a non sottovalutare la banalità del male.

Chicca Galli (Traduttore)

  • Editore ‏ : ‎ Rizzoli (11 gennaio 2022)
  • Lingua ‏ : ‎ Italiano
  • Copertina rigida ‏ : ‎ 432 pagine
  • ISBN-10 ‏ : ‎ 8817160601

Recensione a cura di Sara Valentino

Una lettura molto interessante da inserire nel panorama della letteratura di saggistica dedicata al tema tragico degli internati nei campi di concentramento.

Non è una lettura leggera, non tanto per lo stile narrativo che pur essendo un saggio si avvicina parecchio al romanzato, quanto per il tema che è sempre così difficile da vedere nella nostra mente. Sono fatti realmente accaduti, è un libro che nasce da testimonianze e per questo motivo il dolore è proprio pronto a spalmarsi sulla nostra pelle.

Ho trovato il tema innovativo rispetto appunto alla enorme quantità di parole già dette e già scritte. Parliamo di donne e di moda, è un saggio che può essere inserito nella branchia della storia della moda. E’ molto carino vedere le riviste di moda dell’epoca.

Resta però, seppur un modo per salvarsi, e inoltre un quadro di come si crea gruppo in casi così al limite della sopportazione umana, una finestra su una pagina indimenticabile ma da dimenticare della storia dell’umanità.

I nazisti erano consapevoli della capacità dell’abbigliamento di plasmare l’identità sociale e soprattutto erano interessati alla ricchezza dell’industria tessile che era dominata dal capitale e dal talento degli ebrei. Molto interessante l’excursus secondo cui si mette in evidenza come i negozi più piccoli vendevano articoli già pronti, alcuni avevano le scarpe appese come grappoli di banane. I negozi di stoffe erano irresistibili. Mentre nelle aree rurali c’era chi ancora tesseva in casa. La macchina da cucire era per i sarti un investimento fondamentale. Le possiamo immaginare lucide nere e decorate montate su tavoli di legno.

Tornando in Germania si evidenzia una volontà a promuovere una moda germanocentrica. Hitler dichiarò che le berlinesi dovevano diventare le donne meglio vestite d’Europa. Basta con i modelli parigini! E’ il 1933 quando questo accade e quando il ministro Goebbels decide di guidare una “Casa di moda ” tedesca. Per tramite degli articoli delle riviste di moda quindi si corre verso l’imposizione nel voler controllare l’industria tessile pur passando attraverso le immagini di innocenti abitini in allegri colori estivi.

Estromettere gli ebrei dall’industria della moda è il passo successivo e non certo casuale. Era un obiettivo. Per raggiungerlo si abbondò con ricatti e minacce, sanzioni e boicottaggi. Per la grande riuscita era necessario mettere l’uno contro l’altro, in questo caso ebrei e ariani. Nella Germania tra le due guerre circa l’80% dei grandi magazzini e delle catene era proprietà di ebrei… Prima le scritte: “Non comprate dagli ebrei” poi l’innovativa etichetta ADEFA Consorzio dei produttori tedeschi ariani dell’industria dell’abbigliamento. Per capi Ariani PURI.

Degli orrori di Auschwitz non parlerò, qualche notizia la conoscevo e si è rafforzato lo sdegno, qualche altra mi è giunta nuova perchè l’orrore non ha mai fine. Grazie al loro lavoro di sarta le donne di cui parla l’autrice si salvarono dai forni crematori, ne narra la storia, la forza, le vicissitutdini.

E’ difficile riuscire a capire perchè le Parche abbiano deciso che io dovessi essere l’ultima. C’erano molte donne che erano più giovani di me. Oggi sono contenta di poter condividere con altre persone quello che so di quell’epoca e quel luogo maledetti.” Bracha Kohùt nata Berkovic

Auschwitz le aveva insegnato che l’amore e la lealtà non si estinguono mai del tutto, nemmeno tra gli orrori di un campo di sterminio. “Era l’inferno in terra, ma c’erano persone che mantennero la propria umanità”

Bracha è morta il giorno di San Valentino del 2021

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