Le vestali

Il luogo più sacro di Roma, simbolo stesso della città, fu sin dalle origini il tempio di Vesta. Questa dea del focolare non era rappresentata da alcuna immagine; nel suo tempio ardeva perennemente il fuoco sacro, che sarebbe stato rovinoso spegnere: lo si spegneva soltanto una volta all’anno, all’inizio della primavera, per rinnovarlo, ma lo si riaccendeva subito. Le vestali lo custodivano scrupolosamente all’interno del tempio.

In occasione della purificazione annuale, dal 7 al 15 giugno, detta stercoratio, rimozione del letame, si spegneva il fuoco e si rimuovevano tutti i rifiuti dal recinto sacro a Vesta per accumularli in un certo luogo, vicino a una porta che era appunto chiamata porta Stercoraria. Poi lo si accendeva; ma, secondo quanto dice Plutarco, bisognava non attizzarlo da un fuoco già esistente, bensì farne avvampare uno del tutto nuovo e incontaminato: lo si accendeva con degli specchi concavi che concentravano i raggi del sole sopra un’esca, sino a produrre la fiamma. Fu Numa, si dice, a organizzare il culto di Vesta a Roma; ma il culto del fuoco sacro e della sua dea era già diffuso nel Lazio anche prima che Roma nascesse.

Le vestali di Roma, sacerdotesse vergini devote al culto della dea, in origine furono due: Gegania e Verenia. Poi furono portate a quattro e sotto Servio Tullio a sei.

La più anziana era la vestalis maxima che aveva un ruolo di primo piano nella vita politica e religiosa di Roma. La scelta era accuratissima, quando si liberava un posto veniva selezionato un gruppo di bambine di famiglia aristocratica, dai sei ai dieci anni, e tra esse veniva sorteggiato davanti al Senato un nome. Il sorteggio simboleggiava la scelta divina. Si procedeva poi a un rito di passaggio, pubblico, la prescelta era condotta in processione fino al tempio di Vesta, le venivano recisi i capelli, appesi a un albero lì vicino, arbor capillata.

Il servizio durava trent’anni, al termine dei quali una vestale aveva il diritto di tornare alla vita normale, anche se poi tutte decidevano di continuare il servizio alla dea fino alla fine dei giorni. Nei primi dieci anni erano apprendiste, nei successivi dieci erano vestali a pieno titolo e negli ultimi anni insegnavano i riti alle più giovani.

Le vestali erano libere di uscire dal tempio, ma vi dovevano tornare a dormire. Ricche e onoratissime facevano una vita servite e venerate dai Romani, circolavano in lettighe, indossavano vesti eleganti ed avevano posti riservati ai giochi gladiatori e di vari altri spettacoli. Portavano l’infula, una fascia bianca che circondava il viso e da cui pendevano strisce sottili di bende sacre, e il suffibulum, un velo bianco quadrangolare che indossavano in occasione di atti sacri. Non si adornavano di gioielli vistosi o abiti colorati.

L’accesso alla loro casa era consentito alle donne libere, dovevano però entrare a piedi nudi, e al pontefice massimo. Il sacrario del tempio era vietato anche a lui.

Avevano un compito molto importante, preparare la mola salsa, un tipo di farina consacrata che doveva essere sparsa su tutti gli animali in procinto di essere sacrificati agli dèi.

Se per caso una loro lettiga incontrava un condannato che veniva portato al patibolo, l’uomo sarebbe stato graziato perchè nulla che avesse a che afre con la morte doveva contaminare la purezza delle vergini cittadine. Era infatti assolutamente prescritto che le vestali restassero caste per non contaminare il fuoco sacro. Non tutte si rassegnarono alla inflessibile regola e caddero vittime, come ogni cuore umano, a segrete passioni e tormenti. Infrangere il voto di castità equivaleva a essere condannate a morte, una morte terribile, una esecuzione feroce ed esemplare. Dopo una lugubre cerimonia e dopo aver attraversato la città su una lettiga coperta e stretta con le cinghie, la colpevole giungeva al luogo del supplizio, a porta Collina, nel “campo scellerato“. Lì in pontefice massimo la faceva scendere in una camera sotterranea, vi era un letto, pane, acqua, olio, latte e una fiaccola: murata viva. Sopra veniva spianata la terra.

La prima vestale giustiziata fu Pinaria, messa a morte sotto Tarquinio Prisco. L’ultima fu suppliziata nel IV sec. d.C. poco prima che il collegio fosse chiuso.

Il grande racconto di Roma antica e dei suoi sette re. Ediz. illustrata

Per approfondire:

«Infine Enea arrivò a quella terra d’Italia che è chiamata Laurento, dal nome dell’alloro, su cui regnava Latino… Quello era dunque il luogo che il fato indicava per fondare una città» Origine del popolo romano, 10-11. Favolosi, intemporali: ogni città ha i suoi miti di fondazione, costellati di profezie e oracoli, il suo parterre di eroi. I Romani, che pure attingono a piene mani dalla mitologia greca – appena cambiando i nomi: Ermes/Mercurio, Atena/Minerva, Herakles/Ercole… -, dispongono di un ampio repertorio di racconti autoctoni, che parlano delle origini del loro popolo. Vi si narra di ninfe dei boschi; del fondatore Enea, straniero e designato; dei gemelli abbandonati Romolo e Remo, della lupa che li allattò; del pastore Faustolo che li raccolse; di un fratricidio, a ricordarci che gli albori scontano sempre un atto barbarico; di una serie di re, Romolo appunto e i restanti sei. Tra mito e storia, accanto agli eroi entrano in scena le donne, con il ratto delle Sabine, la sventurata Tarpea, Egeria che dettò le leggi a Numa, Lucrezia e il suo nobile senso dell’onore, le vestali, Clelia e le giovani romane. Un mondo prodigioso, quello che Giulio Guidorizzi dischiude con garbata sapienza, invitandoci a seguire i primi passi di una civiltà destinata a conquistare l’abbagliante titolo di Caput Mundi.

  • Editore ‏ : ‎ Il Mulino; Illustrated edizione (4 novembre 2021)
  • Lingua ‏ : ‎ Italiano
  • Copertina rigida ‏ : ‎ 384 pagine
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