Sidi Arturo Pérez-Reverte

Penisola iberica, XI secolo. In un’epoca governata da politiche mercenarie, vanità e giochi di potere, il cavaliere Ruy Díaz detto Sidi o El Cid, l’eroe nazionale della Reconquista, attraversa una Spagna arida e inospitale cercando nuove battaglie da combattere, accompagnato dai quarantadue uomini che l’hanno fedelmente seguito in esilio. Rozzi nei modi, straordinariamente complessi negli istinti e nelle intuizioni, sono guerrieri che non hanno mai preteso di essere altro, ultimi portabandiera di un nobile codice di comportamento che trova forma nella fedeltà al signore di turno. Stavolta si tratta di Yusuf Benhud al-Mutaman, re della taifa di Saragozza, che conta su di loro per fronteggiare il fratello ed espandere i propri confini verso il Levante. Arturo Pérez-Reverte torna alla grande Storia per raccontare le gesta di un cavaliere diventato leggenda, regalando un ritratto inedito, poliedrico e autentico di un uomo realmente esistito, ma offuscato dal suo stesso mito. “Sidi” è un romanzo di frontiera, dove la sopravvivenza dell’eroe e dei compagni di imprese è metafora del destino del genere umano, posto di fronte ai propri limiti e sempre chiamato a superarli.

  • Editore ‏ : ‎ Rizzoli (8 giugno 2021)
  • Lingua ‏ : ‎ Italiano
  • Copertina flessibile ‏ : ‎ 400 pagine

Recensione a cura di Paola Nevola

Ci sono uomini che sopravvivono nella memoria alla storia, a re, regni e popoli, ci sono uomini che sono leggenda. Uno di questi uomini è Rodrigio Diaz de Vivar, Ruy Diaz, Sidi o El Cid, perfino il suo cavallo Babieca è diventato leggenda così come la sua spada la Tizona. Tant’è che un poema gli è stato dedicato il “Cantar de mio Cid”.

Foto di Paola Nevola

Sidi è il racconto di questa leggenda che si combina con la storia e l’immaginazione del romanziere, dando modo di scoprire chi era in realtà l’uomo prima di tutto, il guerriero, il comandante, come è diventato il mito, le motivazioni storiche e umane. 

Parlando della storia siamo in un periodo di contrasti duri e di instabilità. E’ l’XI secolo e la Spagna è dominata in parte dai mori divisi in varie fazioni chiamate regni di Taifa, dai regni di Castiglia, Navarra e d’Aragona in guerra tra loro per i domini sui territori.

Ruy Diaz crebbe alla corte di Ferdinando I, dal quale era molto stimato, il re quando morì divise il regno tra i suoi tre figli: Sancho la Castiglia, Alfonso Leon, Garcia la Galizia.

Alfonso VI dopo la morte di Sancho II, suo fratello, visto che non aveva lasciato eredi, si prodigò per garantire che se riconosciuto re di Castiglia avrebbe trattato i nobili castigliani alla stregua dei nobili Leonesi, ma il sospetto della nobiltà castigliana era che Alfonso fosse implicato nell’assassinio di Sancho.

Ruy Diaz obbligò Alfonso a giurare che non aveva alcuna implicazione nella morte del fratello Sancho, che però prese questo giuramento come un affronto e un insulto. Per questo episodio e le pressioni di alcuni nobili Alfonso esiliò Ruy Diaz, il quale era già conosciuto come grande condottiero e molti uomini gli giurarono fedeltà e lo seguirono in esilio. Lasciò così l’amata moglie Jimena e i figli.

«Le leggende sopravvivono soltanto viste da lontano.» Era vero. Il suo nome suonava ormai leggendario, e lo sapeva. Non soltanto perché era l’unico che, umile valvassore castigliano, aveva osato pretendere un giuramento da un re, ma perché combatteva da quando aveva quindici anni e nessuno aveva una storia militare come la sua

Inizia la leggenda di Ruy Diaz detto El Cid Campeador o Campidoctor, cioè dottore o maestro del campo di battaglia e El Cid o Sidi, il Signore. 

Foto di Paola Nevola

Il suo “curriculum” è molto vasto, molti combattimenti a singolar tenzone, numerosissime battaglie e assedi che lo videro sempre invitto e spesso fortunato.

Amato da alcuni e invidiato, temuto e detestato da altri, aveva assunto come motto quello di un imperatore romano, suggerito da un abate amico di famiglia: Oderint dum metuant. Che mi odino, ma che mi temano. Era scritto sul suo scudo, in latino.

Un uomo amatissimo dai suoi uomini. Non avrebbe mai ordinato di fare qualcosa ad un sottoposto che non fosse in grado di farlo da sè e quindi curava i suoi armamenti, il cavallo era la vita di un cavaliere per cui non lasciava che nessuno se ne occupasse. 

Dormiva e mangiava come tutti, combatteva come loro davanti a loro, soccorrendoli come loro avrebbero soccorso lui, non si sarebbe mai tirato indietro di fronte ad alcun pericolo, mai avrebbe lasciato un suo uomo tra i nemici. Questo era un punto d’onore e per questo che lo avrebbero seguito fino alla morte, fino all’inferno, con totale fedeltà e ammirazione. 

Tra i più fedeli Alvar Fànez, il comandante più vicino, il suo braccio destro, lo chiamava Minaya che vuol dire mio fratello, questo sta ad indicare il rapporto profondo di stima e fratellanza coi suoi uomini, compagni di battaglie e scorrerie all’inseguimento di bande armate di mori. 

Ostinate, quelle due parole andavano e venivano nella sua testa: successi ed errori. Quanto era difficile intravedere strade giuste nell’insonnia, tra i fantasmi e le fissazioni che la notte stimolava con facilità.

In esilio il suo problema più grande era quello di procurarsi un ingaggio per sostenere il salario della truppa e le spese militari per armamenti e cavalli. Dopo il rifiuto del conte di Barcellona Ramòn Berenguer offrì i suoi servigi a Mutaman il re della Taifa di Saragozza a cui serviva un esercito per imporsi al fratello, ai conti franchi, ai navarri e agli aragonesi… e a quelle fazioni islamiche che intendevano servirsi dei marabutti, truppe berbere fondamentaliste che inneggiavano alla Jihad la guerra santa.

Reverte ci racconta lo stratega militare, un uomo istruito e intelligente, conosceva l’arabo, la religione e le preghiere mussulmane, prendeva spunto dai testi classici bellici ne parlava alle truppe condividendo con loro le strategie e ascoltando i suggerimenti, adottando tattiche psicologiche per spaventare il nemico.

Reverte con lo stile inconfondibile che vede descrizioni precise e accurate ci cala nelle atmosfere delle sconfinate e assolate pianure spagnole a ridosso delle sierre e dei confini. Sui campi di battaglia e agli assedi, tra le urla e il clangore delle armi, nello sforzo, nella tensione e in tutte quelle sensazioni che possono palpitare nella carne, nella mente e nel cuore di un guerriero, come la paura, la ferocia cieca, la trance del combattimento. 

Un romanzo che pone davanti al significato della vita nonostante la morte sia così vicina a questi rudi guerrieri con valori e principi del loro mondo, spesso senza affetti o con le famiglie lontane, il cui valore di  affetto e famiglia è sotteso nei compagni nel grande senso di fratellanza. Alla forza di volontà e di resilienza, a quel senso innato che porta l’uomo a voler confrontarsi con sè stesso e a trascendere.

«Non può vivere delle armi chi non sa morire» sospirò. «E la gente ben nata sa andare con calma verso l’eternità.»

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