Viaggiatori straordinari. Storie, avventure e follie degli esploratori italiani – Marco Valle

L’esploratore conobbe nell’Ottocento la sua consacrazione definitiva. L’iconografia popolare racconta le gesta di uomini alla conquista di immensità sconosciute, con in testa il casco coloniale e nelle mani una mappa, un sestante o un fucile: un ritratto eccezionale, ma ingenuo. Nella realtà, gli esploratori furono espressione di un’epoca, con una precisa funzione sociale e politica: informare i contemporanei sullo stato del mondo, cercare risorse, fondare colonie. Al tempo stesso, però, dai loro diari traspaiono uomini inquieti, a disagio se non in totale rottura con le società da cui provengono. Nelle «terre incognite» gli esploratori cercavano non solo fama e ricchezze, ma la possibilità di dare un senso alla propria esistenza. Di quell’epopea il cinema e l’editoria hanno consegnato una lettura quasi esclusivamente anglosassone, imperniata sui nomi di Livingstone, Stanley, Burton, Speke. In Italia, per una strana ritrosia, sulla grande stagione dell’esplorazione per decenni si è preferito sorvolare. Marco Valle si è messo sulle tracce di quella «comunità avventurosa» italica che percorse le zone più selvagge e inesplorate dei cinque continenti: da Ippolito Desideri in Tibet a Giacomo Beltrami alle sorgenti del Mississippi; da Orazio Antinori a Giacomo Doria a Luigi Amedeo di Savoia fino a Odoardo Beccari nel Borneo, Giacomo Bove in Patagonia, Pietro Savorgnan di Brazzà in Congo, Guglielmo Massaja e Vittorio Bottego in Abissinia, Giovanni Miami sul Nilo, Giovan Battista Cerruti in Malesia. E ancora nel Novecento Alberto de Agostini in Patagonia, Raimondo Franchetti in Dancalia, Giuseppe Tucci in Asia e Ardito Desio nel Sahara. Fino a oggi, con Samantha Cristoforetti nello spazio, continuatrice della saga dei nostri «capitani coraggiosi».

  • Editore ‏ : ‎ Neri Pozza (2 febbraio 2024)
  • Lingua ‏ : ‎ Italiano
  • Copertina flessibile ‏ : ‎ 320 pagine

Recensione a cura di Lia Angy Fiore

Aveva ragione la poetessa Emily Dickinson nel paragonare i libri a un vascello veloce che conduce il lettore in posti lontani, sconosciuti e misteriosi.

È esattamente quello che ho provato durante la lettura di questo interessante saggio,dedicato ad alcuni tra i più importanti esploratori italiani che furono protagonisti di storie avventurose, così incredibili da sembrare il frutto della fantasia di Salgari, London, Stevenson o Kipling, ma reali.

Nei tempi in cui viaggiare era molto più difficoltoso e richiedeva tempi lunghissimi rispetto ad oggi, gli esploratori, animati dalla curiosità, da tanto coraggio e da un pizzico di follia “attraversarono deserti infuocati e foreste impenetrabili, scalarono montagne inviolate o risalirono fiumi misteriosi per scoprire l’ignoto. Il ‘non visto’, ‘il non conosciuto’.

L’Ottocento, con le spedizioni in Africa e nell’Asia centrale, fu per questa categoria un secolo d’oro. Essi ebbero l’importante compito di comprendere, studiare, mappare e raccontare parti del mondo ancora sconosciute. Gli esploratori non erano, dunque, soltanto dei sognatori romantici; avevano una funzione politica e sociale ben precisa.

Dai loro Diari di viaggio, i vari protagonisti di questo saggio sembrano accomunati da una sorta d’inquietudine, dall’insofferenza alle convenzioni e alla mediocrità, e dal desiderio di dare un senso eroico alla propria vita. 

Dalle loro storie di vita narrate da Marco Valle, emerge sostanzialmente un atteggiamento rispettoso verso le popolazioni delle terre esplorate, una sana curiosità e apertura per il “diverso”. 

Ho selezionato tre di questi viaggiatori straordinari, per darvi un piccolo assaggio del contenuto di questo libro. Non è stato semplice fare questa scelta, perché ognuno di essi ha una storia avvincente, che merita di essere raccontata.

Il primo esploratore di cui voglio parlarvi è il bergamasco Giacomo Beltrami

Agli inizi dell’Ottocento, il suo coraggio e la sua sete d’avventura lo spinsero ad esplorare le sorgenti del Mississippi, dove nessuno, prima di lui, era riuscito ad arrivare. Trascorse due mesi a Fort Saint Anthony, studiando gli idiomi, le usanze e le tradizioni dei nativi, con un approccio da antropologo, attento e rispettoso. Con una canoa risalì in parte il Red River e si inoltrò nel territorio Sioux. 

Qui i suoi compagni di viaggio lo abbandonarono, derubandolo delle armi, delle provviste e del prezioso acciarino. 

Solo, tra i boschi, Giacomo non si perse d’animo e, armato soltanto di un ombrellino rosso, proseguì il suo viaggio tra mille pericoli, prendendo nota di tutto ciò che osservava. Le lettere inviate alla sua amica Girolama Compagnoni Passeri, sono un’importante testimonianza della sua impresa.

Il 15 agosto del 1823, affamato e stremato, arrivò sulle rive del Red Lake, e fu poi accolto da una tribù chippewa. Cercò di conoscere la loro cultura, i loro costumi e la loro lingua. Riprese le forze, si rimise in marcia verso il nord. Il 31 agosto intravide un lago senza emissari che alimentava due ruscelli e pensò che il più piccolo fosse l’unica fonte del grande fiume (in realtà, si trattava delle sorgenti settentrionali). 

Intravedendo la forma di un cuore, diede a quello specchio d’acqua il nome Giulia, in memoria di Giulia de Medici, la nobildonna fiorentina con la quale ebbe una relazione tanto travolgente quanto proibita, morta prematuramente prima che lui lasciasse l’Italia. Da allora è il Julia Lake

Dopo un periodo di riposo, riprese la discesa del grande fiume, e a dicembre arrivò a New Orleans, dove si fermò per quasi un anno per redigere il primo vocabolario inglese-lingua sioux e la relazione del suo viaggio. 

Dopo lunghe controversie e accurate ricognizioni, il governo statunitense gli riconobbe il merito di aver scoperto le uniche e vere sorgenti del Mississippi e tre anni dopo gli intitolò una delle maggiori contee del Minnesota. Successivamente, fu dato il suo nome anche a una cittadina nella Contea di Polk, un quartiere a Minneapolis e una riserva naturale. Un riconoscimento avvenuto troppo tardi…

Beltrami accusò di plagio lo scrittore James Fenimore Cooper, che per il suo “L’ultimo dei Mohicani” attinse a piene mani alla relazione di viaggio scritta dall’esploratore. 

Nel 1837, stanco e invecchiato, decise di ritornare a Filottrano. Fu un amaro ritorno… Le autorità papaline misero all’indice i suoi libri e la polizia austriaca ordinò alla biblioteca di Bergamo di chiuderli in cassaforte. Da una postilla consegnata dall’esploratore al fratello si evince tutta la sua amarezza.

Lascio a Bergamo e all’Italia la vergogna di aver lasciato nell’oblio un concittadino, un italiano le di cui discoperte gli hanno meritato perfino degli invidiosissimi esteri il vanto di aver fatto onore all’Italia e agli italiani.”

E Beltrami non è certo l’unico, tra gli esploratori ricordati da Marco Valle, a essere ingiustamente caduto nell’oblìo.

Il secondo viaggiatore che voglio presentarvi è il meneghino Antonio Raimondi. Figlio di un famoso pasticcere, mostrò presto un interesse per le scienze naturali. Assiduo frequentatore dell’orto botanico di Brera, del Museo di Storia Naturale e delle Alpi lombarde, era anche un appassionato lettore di manuali e resoconti. Divorò l’opera monumentale dell’esploratore tedesco Alexander von Humboldt, e da lì iniziarono a prendere forma i suoi sogni, ma fu soprattutto la partecipazione al Congresso degli scienziati italiani a Torino, nel 1841, a segnare una svolta nella sua vita.

Prese parte alle famose Cinque giornate di Milano, e fu per andare via lontano dagli orrori dalla guerra, e dalla polizia austriaca e papalina, che decise di imbarcarsi per il Perù, una terra ancora sconosciuta, con il medico Alessandro Arrigoni. 

Dopo un lungo viaggio, i due amici sbarcarono a Callao. Era il 28 luglio 1850.

Raimondi si integrò molto bene in questa nuova realtà, tanto da riuscire ad ottenere degli incarichi importanti. Tra il 1851 e il 1869 organizzò 19 spedizioni, attraversando deserti e foreste. 

Ci viene descritto come un “cartografo meticolosissimo, scienziato poliedrico, botanico di primissimo livello“.

Ci sembra di vederlo, mentre osserva il paesaggio che lo circonda con gli occhi pieni di meraviglia, annotando scrupolosamente ogni cosa sui suoi taccuini.

A lui si deve la prima rappresentazione cartografica moderna del Perù.

Si interessò anche all’archeologia amerinda, un ambito quasi del tutto inesplorato. 

A Chavin, in una semplice capanna, trovò una stele risalente all’epoca granitica, che da allora fu per tutti la “Stele di Raimondi“.

Anche a una pianta da lui scoperta, la Tatanka o Puya Raimondii, fu dato il suo nome.

Catalogò migliaia di piante, animali e insetti, e studiò la cocaina, di cui fu tra i primi a isolarne il principio attivo per finalità mediche.

In seguito, si dedicò alla catalogazione della sua immensa collezione naturalistica e alla scrittura del suo “El Perú, itinerario de viajes“, un’opera in sei volumi che racchiude la geografia, la geologia, la botanica, la zoologia e l’etnografia di quella che Raimondi considerava ormai la sua nuova patria.

Si impegnò attivamente nella difesa dei diritti delle popolazioni locali e nella lotta allo schiavismo.

Lo schivo e riservato esploratore ottenne numerosi riconoscimenti e, alla sua morte, il governo peruviano lo omaggiò con un funerale solenne a Lima, dove fu sepolto nel mausoleo edificato in suo onore. 

In Perù, ottenne altri riconoscimenti postumi, mentre in Italia fu dimenticato. 

Un personaggio che mi ha suscitato molta simpatia è il veneziano Giancarlo Ligabue, a cui è intitolato il Museo di storia naturale di Venezia, al quale il simpatico viaggiatore donò oltre duemila reperti, frutto delle sue centotrenta spedizioni scientifiche in tutto il mondo, tra cui lo scheletro perfettamente intatto di un dinosauro trovato nel deserto del Niger nel 1973.

Sono giunte fino a noi alcune sue dichiarazioni, dalle quali traspare il carattere ironico e autoironico dell’esploratore.

Un giorno atterro con l’elicottero in un villaggio della Colombia e fui subito circondato da armati che mi sembrarono della tribù che stavo cercando: «per fortuna siete voi, avevo paura che foste guerriglieri». «Ma noi siamo guerriglieri», fu la risposta. E io: «Yo también soy un guerrillero. Sono tutti i giorni in guerra con mia moglie». E li feci ridere».

«In Patagonia hanno trovato un piccolo dinosauro insettivoro e lo hanno chiamato Ligabueino Andesi. Che faccio: me ne vanto? Praticamente è una gallina…»

In quarant’anni di ricerca, incontrò popolazioni sconosciute al mondo occidentale, scoprì necropoli, città sepolte, graffiti rupestri, giacimenti di dinosauri, e molto altro. 

Scrisse libri e articoli, e produsse oltre settanta documentari spesso girati insieme all’amico Piero Angela. 

Leggendo questo saggio, scritto in modo chiaro ed accattivante, troverete tante curiosità e scoprirete altre storie avvincenti come un romanzo d’avventura. E vi chiederete come è possibile che questi uomini coraggiosi, che spesso rischiarono anche la vita, non per una semplice sfida o per imprudenza, ma per conoscere e farci conoscere il mondo al di là del nostro orizzonte, siano stati dimenticati. Grazie a Marco Valle per averli riportati alla luce. 

L’autore, nella parte conclusiva, accenna anche ai viaggiatori dei giorni nostri, come Samantha Cristoforetti, che forse non godono del giusto riconoscimento per ciò che fanno.

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