Accabadora – Michela Murgia

Perché Maria sia finita a vivere in casa di Bonaria Urrai, è un mistero che a Soreni si fa fatica a comprendere. La vecchia e la bambina camminano per le strade del paese seguite da uno strascico di commenti malevoli, eppure è così semplice: Tzia Bonaria ha preso Maria con sé, la farà crescere e ne farà la sua erede, chiedendole in cambio la presenza e la cura per quando sarà lei ad averne bisogno. Quarta figlia femmina di madre vedova, Maria è abituata a pensarsi, lei per prima, come “l’ultima”. Per questo non finiscono di sorprenderla il rispetto e le attenzioni della vecchia sarta del paese, che le ha offerto una casa e un futuro, ma soprattutto la lascia vivere e non sembra desiderare niente al posto suo. “Tutt’a un tratto era come se fosse stato sempre così, anima e fili’e anima, un modo meno colpevole di essere madre e figlia”. Eppure c’è qualcosa in questa vecchia vestita di nero e nei suoi silenzi lunghi, c’è un’aura misteriosa che l’accompagna, insieme a quell’ombra di spavento che accende negli occhi di chi la incontra. Ci sono uscite notturne che Maria intercetta ma non capisce, e una sapienza quasi millenaria riguardo alle cose della vita e della morte. Quello che tutti sanno e che Maria non immagina, è che Tzia Bonaria Urrai cuce gli abiti e conforta gli animi, conosce i sortilegi e le fatture, ma quando è necessario è pronta a entrare nelle case per portare una morte pietosa. Il suo è il gesto amorevole e finale dell’accabadora, l’ultima madre.

  • Editore ‏ : ‎ Einaudi (20 maggio 2014)
  • Lingua ‏ : ‎ Italiano
  • Copertina flessibile ‏ : ‎ 166 pagine

Recensione a cura di Paola Nevola

Era da molto che desideravo leggere questo libro e non solo per la fama dell’autrice, ma perché amo quei romanzi che conducono nel mondo arcaico delle genti. Con questo romanzo Michela Murgia evoca la Sardegna, sin dalle prime pagine  incanta immergendoci con le mani e la mente nella terra sarda.

Incipit:

Fillus de anima.

E’ così che li chiamano i bambini generati due volte, dalla povertà di una donna e dalla sterilità di un’altra. Di quel secondo parto era figlia Maria Listru, frutto tardivo dell’anima di Bonaria Urrai.

Maria Listru è  una bambina quartogenita, nata per sbaglio, una che non conta, un impiccio, una bocca in più da sfamare per la madre vedova. 

Gioca al sole impastando la terra per fare una torta. Questa immagine così evocativa ci porta a tornare bambine a impastare la terra e la nostra attenzione ne è avvinta. 

Mentre Maria impasta la terra Bonaria, la sarta, è venuta a prenderla per condurla con sé come fillus de anima, queste due parole legano ancor più che il sangue, legano l’anima, da questo episodio cominciamo a empatizzare col legame tra Maria e tzia Bonaria, l’Accabadora.

Quanti anni avesse Tzia Bonaria allora non era facile da capire, ma erano anni fermi da anni, come fosse invecchiata d’un balzo per sua decisione e ora aspettasse pazientemente di essere raggiunta dal tempo in ritardo.

Bonaria l’ha vista rubacchiare ciliegie e il vestitino macchiato di rosso le imprime la colpa del misfatto, la mette in mostra. Bonaria non ha figli e quella bambina non voluta di cui nessuno si accorge è quella figlia che le manca, quella a cui può lasciare il suo sapere, che la può sostenere, una dare e avere senza bisogno di spiegazioni.

Maria con tzia Bonaria inizia a esistere ….Le colpe, come le persone, iniziano a esistere se qualcuno se ne accorge.

Si crea un’armonia perfetta tra Maria e tzia Bonaria, Bonaria vuole che vada a scuola, le spiega il valore dell’istruzione, mentre le sue sorelle restano nell’ignoranza, le insegna a cucinare i dolci, a cucire. Le insegna a stare al mondo.

 “Ti ho picchiato perché mi hai detto una bugia. Le mandorle si ricomprano, ma alla bugia non c’è rimedio. Ogni volta che apri bocca per parlare, ricordati che è con la parola che Dio ha creato il mondo.”

Le voci e gli sguardi indiscreti e sfuggevoli in paese si rincorrono su quello strano rapporto e non solo per quello, perché tutti sanno quello che fa Bonaria e incute un timore reverenziale.

Maria cresce e intanto impariamo a conoscere quella terra aspra, le giornate assolate e deserte, le notti buie e silenziose, i silenzi dove basta un gesto o uno sguardo per intendersi, donne e uomini che vivono rispettosi dei loro ruoli da secoli. Uomini padroni della terra e donne padrone dei riti della vita. Uomini che lavorano la terra che un giorno sarà dei figli, e terra e onore diventano una cosa sola. 

Gli appezzamenti piccoli e irregolari raccontavano di famiglie con troppi figli e nessuna intesa, frantumate in una miriade di confini fatti a muretto a secco in basalto nero, ciascuno con il suo astio a tenerlo su.

Le donne  conservano segreti  da tramandare alle figlie, il lavoro in casa, le tradizioni delle feste, preparare il pane della sposa. Il lutto col pianto delle prefiche, lamenti che si insinuano nelle case e ognuno ricordando i suoi cari  socchiude gli scuri per tenere stretto e sommesso il dolore ,  il dolore come una ferita che non può essere esposta alla luce del sole.

 “…Quindi il lutto serve a far vedere che c’è il dolore… No, Maria, il lutto non serve a quello. Il dolore è nudo, e il nero serve a coprirlo, non a farlo vedere”

Bonaria è un personaggio affascinante, è una donna saggia di pochissime parole, ma quando parla le sue parole scolpiscono per quanto sono vere. 

Eppure a Maria nasconde un segreto, non è mai riuscita a parlargliene, la notte spesso esce e Maria non dà peso a quelle uscite notturne. Non sa nulla di quello che fa tzia Bonaria che quando è chiamata, solo se è veramente voluto dall’interessato senza speranza, è pronta a portargli una morte pietosa. 

“Come gli occhi della civetta, ci sono pensieri che non sopportano la luce piena. Non possono nascere che di notte, dove la loro funzione è la stessa della luna, necessaria a smuovere maree di senso in qualche invisibile altrove dell’anima.”

La verità le verrà gettata in faccia dal suo migliore amico, Andrìa, quando scopre com’è morto il fratello Nicola, rimasto senza una gamba per un fatto di terra e onore. 

Bonaria questa volta ha notato una sofferenza diversa che l’ha portata indietro nel tempo quando era una giovane, perché ha visto in Nicola la stessa sofferenza di quei ragazzi tornati dalla guerra mutilati, morti nell’anima.

Succedono fatti che feriscono, come le cose non dette, le verità taciute, scoprire la realtà dopo tanti anni è uno di quelli,  non c’è come la sofferenza che fa sì di non accettare nessuna spiegazione, nessuna giustificazione. 

Soprattutto in quell’età giovanile in cui la vita non ha ancora messo di fronte a cedimenti o compromessi, non ci sono sfumature, e certi fatti diventano affronti imperdonabili. Non è una questione di giusto o sbagliato perché in quella terra il confine è labile, ma …ci sono cose che si fanno e cose che non si fanno, e Maria la differenza la conosceva benissimo, Maria continua a pensarci non era possibile che le avesse mentito, non può accettare questa verità, è una cosa che lei non farebbe mai.

Non dire mai: di quest’acqua io non ne bevo. Potresti trovarti nella tinozza senza manco sapere come ci sei entrata.

Questo segna una rottura tra Maria e tzia Bonaria. Per Maria l’unico desiderio è andarsene. Fugge oltre il mare   in continente, per rinascere per la terza volta e continuare la sua crescita. 

Durante quel viaggio Maria si ingegnò per non dormire… il tempo le servì per farsi accabadora dei suoi ricordi, e trattare gli avvenimenti… come persone da far salire o meno sul traghetto per il continente. Uno per uno li segnò, mentre li ricordava per dimenticarli, e quando arrivò al porto di Genova scese dalla nave sentendosi più leggera, convinta di aver lasciato sull’altra terra tutta la zavorra delle sue ferite.

A Torino ci sono nuove sfide, un altro percorso di crescita, finché col passare del tempo la vita non mette davanti su un piatto il conto, perché tutto ritorna come una mareggiata, tutte le certezze a cui si è creduto cadono con la maturità adulta della comprensione, del perdono, di lasciare andare le cose perché i pesi nella vita schiacciano e bisogna riequilibrare per trovare la pace. 

Un romanzo di crescita, di vita, amore e morte, sul valore di madre, di rapporti tra le persone, carico di profondi sentimenti e passioni. La scrittura di Michela Murgia bella, elegante, schietta, scava nell’anima ci porta dentro una storia tenebrosa con l’intensità della suggestione, degli echi rituali arcaici della Sardegna e con maniera adeguata e autentica parla di ciò che temiamo, la morte, un argomento che cerchiamo di evitare, perché scuote gli animi, turba o mette disagio.

Non desidero entrare nella questione eutanasia. Ricordo mia nonna quando diceva “ha fatto una bella morte”, (e si dice ancora), quelle parole prendevano il senso del sollievo dal dolore, dalla perdita, non c’era più sofferenza, ma serenità e pace. La serenità, la pace, la dignità nella morte è il dono dell’ultima Madre, l’Accabadora.

“ …non mi si è mai aperto il ventre – proseguì – e Dio sa se lo avrei voluto, ma ho imparato da sola che ai figli bisogna dare lo schiaffo e la carezza, e il seno, e il vino della festa, e tutto quello che deve servire, quando gli serve. Anche io avevo la mia parte da fare, e l’ho fatta. …E quale parte era? …L’ultima. io sono stata l’ultima madre che alcuni hanno visto.”

Un libro bellissimo da assaporare lentamente, mi ha emozionata molto e ci tornerò ancora a riflettere.

“Nell’ora della debolezza alcuni preferiscono diventare credenti piuttosto che forti.”

“Non metterti a dare nomi alle cose che non conosci, Maria Listru. Farai tante scelte nella vita che non ti piacerà fare, e le farai anche tu perché vanno fatte, come tutti.”

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Se desiderate approfondire l’argomento sulla figura dell’Accabadora vi consiglio l’articolo di:

Accabadoras: sacerdotesse della vita e della morte.

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